Niente più Indian Garden. Una delle più apprezzate oasi verdi del Grand Canyon, dallo scorso fine settimana, si chiama Havasupai Gardens, tributo tardivo come tanti altri alla comunità nativa che abitava quello che oggi è uno dei parchi nazionali più famosi e visitati del pianeta, prima di venirne cacciata con la forza dall’invasore bianco, ormai quasi un secolo fa.

Un evento, che era stato deciso a novembre, ma che è stato ufficializzato, con tanto di cerimonia, in questi giorni, dopo anni di pressioni che gli Havasupai avevano provato a esercitare sia a livello locale che a Washington. I membri della comunità hanno percorso a piedi un tratto dei Bright Angel Trail, il più famoso sentiero del Parco, ripidissimo cammino – in origine una pista usata dai nativi – di 15 km che dal lato sud della voragine scende per oltre 1.300 metri di dislivello fino al fiume Colorado per celebrare e partecipare alla cerimonia.

Donne e uomini si sono incamminati fin dall’alba, lungo un cammino che già a maggio può diventare una sfida insormontabile per molti, se affrontata nelle ore centrali della giornata, lungo gli oltre 7 km che dal plateau del South Rim – il versante meridionale della fenditura più ammirata del mondo, conduce al sito. Un percorso in discesa ripida, tra pioppi e frassini, che a tratti fanno ombra, tra uccelli e rettili, con le muraglie del dirupo che si fanno sempre più alte e imponenti, a ribadire – a chi non fosse esattamente preparato a simili esperienze – la durezza della successiva, ineluttabile, risalita. “No posso credere di aver fatto tanta strada – racconta all’agenzia di stampa americana Associated Press Carletta Tilousi -. Non posso credere soprattutto che i miei antenati utilizzassero questo tracciato d’abitudine”.

Un viaggio, quello di Tilousi e dei suoi compagni, che rappresenta un momento epocale nella relazione tra gli Havasupai e il governo statunitense, a pochi mesi dall’accordo che sancisce la reintitolazione  di quello che oggi è un popolare sito per il campeggio degli escurisionisti che vogliono trattenersi più giorni nella voragine. Non più, appunto, Indian Garden, ma Havasupai Gardens or “Ha’a Gyoh.”

I nativi sperano che il gesto si traduca in una nuova era di cooperazione, che garantisca loro un più facile accesso ai siti del canyon, oltre alla possibilità di raccontare la loro storia dal loro punto di vista e con il loro linguaggio.

Il Consiglio Usa dedicato ai nomi geografici ha approvato la reintitolazione dopo che per anni gli Havasupai lo avevano reclamato, come parziale risarcimento per le ingiustizie subite nei secoli. I discendenti dell’ultimo nativo che ha abbandonato il sito – Captain Burro – raccontano come questi, nei primi anni del turismo, precedenti alla creazione del Parco Nazionale, e alla successiva cacciata degli Havasupai, portasse le angurie da vendere ai turisti in un grande cesto, o di come alcuni membri delle varie famiglie avessero cambiato nome in Burro (asino in spagnolo) o, Tilousi (narratore).

Ed Keable, sovraintendente del Grand Canyon National Park, che ha parlato al termine della cerimonia, ha ammesso le violenze perpetrate per decenni dal governo federale e ha a sua volta sottolineato il valore simbolico della giornata, come punto di partenza per una nuova era di collaborazione con tutte le comunità native dell’area. “C’è voluto del tempo per creae una sorta di credibilità (con i nativi) – ha voluto giustificarsi il manager federale – considerate le modalità con le quali questo territorio è stato trasformato in parco nazionale, contro il volere della popolazione che ci aveva vissuto da tempo immemorabile”.

Dopo la cacciata, gli Havasupai sono rimasti senza terra per un certo periodo, fino a quando il governo non ha trovato per loro un un terreno nelle profondità del canyon. In principio circoscritto ad appena 2,6 kmq, venne poi ampliato nel 1975, in quello che fu uno dei più grandi trasferimenti di terra a una comunità nativa negli States.

Oggi, 500 dei quasi 770 membri della comunità vivono nel Supai Village, in una riserva adiacente al Grand Canyun, raggiungibile solo a piedi, a dorso di mulo o in elicottero. Un luogo conosciuto per le imponenti cascate. Sono loro le responsabili del nome della tribù, Havasupai, o Havasu æBaaja, che sta per “Il popolo delle acque verdi-blu”. Migliaia di turisti visitano il sito, quanto basta a rappresentare la prima fonte di reddito per i suoi abitanti.

Gli eventi per l’occasione si sono avvicendati per un paio di giorni per tutto il South Rim. Non tutti poi hanno affrontato la discesa fino ai Gardens – 900 metri di dislivello, che richiedono tra le due e le quattro ore, per senso di marcia: qualcuno ha utilizzato l’elicottero. La cerimonia si è tenuta in un piccolo anfiteatro, lungo il Bright Angel Trail.

“Abbiamo sempre conservato un legame con questo posto. Venivamo qui a pregare, a cantare le nostre canzoni – racconta Dianna Sue Uqualla, un’anziana partecipante -. “Penso che anche per questo, a un certo punto, gli spiriti si siano svegliati e abbiano detto ‘Sì, voi siete ancora qui'”.

Alcuni cartelli già citano il sito come Havasupai Gardens. Un ambiente lussureggiante fa da cornice al campeggio, con alcune cabine, una delle quali è stata recentemente riservata – dallo stesso Keable – ai membri della comunità nativa. Altre iniziative – targhe, cartelli ove si racconta la storia degli Havasupai – sono in corso d’opera.

Il tutto va di pari passo con altre iniziative. Il Parco sta lavorando con una decina di comunità native che hanno connessioni con il Grand Canyon su mostre, spettacoli, manifestazioni culturali, sia da offrire live, che attraverso audio e video. Un lavoro, questo, che ha attirato l’attenzione di altri enti Usa, dal Golden Gate National Recreation Area and Point Reyes National Seashore, alle porte di San Francisco, all’American Indian Alaska Native Tourism Association

Tilousi auspica, per Ha’a Gyoh, un ritorno all’agricoltura tradizionale del sito, con alberi di albicocco, angurie, granoturco e girasoli. Vorrebbe poi vedere i inomi in lingua nativa su mappe, poster e anche sui badge dei ranger.


At Ha’a Gyoh, Tilousi imagines a return to traditional farming with apricot trees, melons, corn and sunflowers. She has also pushed for the Havasupai language to be on maps, posters and ranger badges. “È stata un’importante esperienza di crescita – racconta il giorno seguente – che rimarrà nel cuore molto a lungo”.