Chissà se il giovane surfista Jay Westerveld, quando coniò per caso il termine “greenwashing” nel 1983, immaginasse la portata della sua intuizione…
Si trovava in un resort delle Isole Fiji e di fronte all’indicazione data ai clienti di quel resort di non mettere a lavaggio gli asciugamani tutti i giorni, “al fine di proteggere il pianeta dall’inquinamento e ridurre lo spreco di acqua”, decise di verificare se la proprietà avesse veramente a cura l’ambiente o no. Scoprì che la proprietà del resort stava investendo per costruire nuovi edifici, non curandosi dei forti impatti negativi sull’ambiente, la biodiversità ed il territorio circostante e senza aver previsto alcuna azione di mitigazione di questi impatti, e capì che quel messaggio nel bagno della sua stanza, pur se corretto nel suo contenuto green, veniva però utilizzato a soli fini economici (riduzione dei costi per l’azienda) e non aveva nulla a che vedere con una vera attenzione all’ambiente.
Intuì quindi, più di 40 anni fa, quello che sarebbe poi diventato uno dei maggiori pericoli per la transizione ecologica delle imprese e lo chiamò “green washing”: una pennellata superficiale di green, per coprire pratiche tutt’altro che ecologiche.
Nei 40 anni successivi, con il crescere della crisi climatica e delle pressioni dello sviluppo economico sugli equilibri del pianeta e con la conseguente maggiore consapevolezza e sensibilità dei consumatori e dei cittadini per le questioni ambientali, la pratica del green washing è purtroppo divenuta una vera e propria strategia di marketing, sempre più diffusa, efficace e gratificante per le imprese in termini economici. Infatti, come disse Winton Churchill “Una bugia ha già fatto il giro del mondo prima che la verità abbia avuto la possibilità di infilarsi i pantaloni”.
Moltissimi prodotti “dicono” di essere green, rispettosi dell’ambiente, amici della natura, etc., per non parlare di alcuni utilizzi disinvolti dei termini “net zero”, “carbon neutral”, in una sorta di giungla della comunicazione dove, in virtù del fatto che si tratti di un’attività libera, volontaria e non regolata, vince chi la spara più grossa. E, tutto ciò, come una beffa, paradossalmente crea un danno d’immagine a quelle imprese serie, che attuano concretamente la transizione ecologica, si impegnano per trasformare prodotti e processi riducendone gli impatti e si rifiutano di bluffare apertamente, pagando a caro prezzo la propria credibilità. E spesso si rifugiano nel c.d. green hushing (silenzio green).
In questo scenario, la nuova Direttiva UE, c.d. Green Claims, emanata nel Febbraio scorso, segna finalmente, anche se molto in ritardo, uno spartiacque importante, definendo normativamente per la prima volta alcune forme di green washing che, una volta recepita la direttiva stessa da parte degli Stati membri (entro Marzo 2026) , potranno essere proibite dalle autorità nazionali come “pubblicità ingannevoli”, sulla base di un’analisi caso per caso.
Non è possibile in quest’articolo affrontare tutte le tipologie di asserzioni ambientali sanzionabili secondo la Direttiva, e quindi ci concentriamo su tre aspetti: quello dei marchi di sostenibilità, quello delle compensazioni di gas serra (offsetting), e quello della comunicazione green delle imprese, rimandando la corposa parte dedicata dalla Direttiva alla circolarità dei prodotti (riparabilità, obsoloescenza programmata, riciclabilità etc.) ad un prossimo approfondimento.
Per quanto riguarda i marchi di sostenibilità, che si riferiscono a prodotti, servizi o imprese, le disposizioni della Direttiva sono molto chiare. Per evitare che il cliente finale possa essere ingannato dal proliferare di marchi ambientali e di sostenibilità auto-prodotti senza una solida base scientifica (solo nel mondo dell’agrifood qualche anno fa, in un’indagine della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile ne abbiamo contati alcune centinaia), la Direttiva dispone che essi saranno permessi solo se si tratti di iniziative regolate da autorità pubbliche (si pensi ad esempio all’Ecolabel UE) o che si basino su “sistemi di certificazione”.
Tali sistemi di certificazione devono però obbligatoriamente avere i seguenti connotati:
i requisiti del sistema devono essere accessibili al pubblico; il sistema, nel rispetto di condizioni trasparenti, eque e non discriminatorie, deve essere aperto a tutti gli operatori economici disposti e in grado di conformarsi ai suoi requisiti; i requisiti devono essere stati elaborati dal titolare del sistema in consultazione con esperti riconosciuti e con gli stakeholders; il sistema deve stabilire procedure per affrontare i casi di non conformità ai requisiti e prevedere la revoca o la sospensione dell’uso del marchio di sostenibilità da parte dell’operatore economico in caso di non conformità ai requisiti; il monitoraggio della conformità dell’operatore economico ai requisiti del sistema deve essere oggetto di una procedura obiettiva ed è svolto da un terzo, la cui competenza e la cui indipendenza, sia dal titolare del sistema sia dall’operatore economico, si basano su norme e procedure internazionali, dell’Unione o nazionali.
Con un calcolo basato solo sulla nostra percezione e non su statistiche reali, per le quali dovremo aspettare qualche anno, crediamo che almeno la metà dei marchi e delle certificazioni volontarie ad oggi esistenti non siano conformi a questi requisiti e quindi, se non si adegueranno, saranno proibiti come pubblicità ingannevole.
Per quanto concerne invece le compensazioni delle emissioni di gas serra attraverso crediti volontari di carbonio (il c.d. carbon offsetting), il cui utilizzo a fini comunicativi è stato già oggetto di numerose critiche della stampa più attenta (ricordiamo ad esempio una importante e informatissima campagna del Guardian di due anni fa) e delle Autorità di regolazione della Pubblicità (come quella olandese e britannica, che hanno recentemente condannato alcune linee aeree per i claims di “voli a zero emissioni” grazie alle compensazioni) la Direttiva dice chiaramente che le asserzioni su prodotti e servizi del tipo “neutrale dal punto di vista climatico”, “certificato neutrale in termini di emissioni di CO2”, “positivo in termini di emissioni di carbonio”, “a zero emissioni nette”, etc. saranno consentite solo se si baseranno sull’impatto effettivo del ciclo di vita del prodotto (o servizio) e non sulla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra al di fuori della catena del valore del prodotto (o servizio).
In virtù di questa previsione, non sarà più possibile ad esempio sostenere che un viaggio in aereo o la partecipazione ad un concerto rock siano a zero emissioni, o a zero emissioni nette o “carbon neutral”, se ciò sia dovuto alla compensazione delle emissioni attraverso progetti di piantumazione o riforestazione, perché “tale asserzione darebbe ai consumatori la falsa impressione che quel prodotto o servizio non abbia alcun impatto climatico”.
Infine, passiamo al tema delle asserzioni ambientali green delle aziende, ad esempio nelle corporate green strategy, molto diffuse come impegni green e target ambientali comunicati ai media e ai consumatori. Anche qui siamo ad un momento di svolta. La Direttiva infatti, all’articolo 1, estende espressamente la regolazione delle asserzioni ambientali anche alla comunicazione di prestazioni ambientali future, vietando quelle che, in base a una valutazione caso per caso, non risulteranno:
corroborati da impegni e obiettivi chiari, oggettivi, pubblicamente disponibili e verificabili;
definiti in un piano di ttuazione dettagliato e realistico che indichi in quale modo tali impegni e obiettivi saranno conseguiti. Tale piano di attuazione dovrebbe includere tutti gli elementi pertinenti necessari per adempiere agli impegni, quali le risorse di bilancio stanziate e gli sviluppi tecnologici a disposizione.
Verificate da un esperto terzo, che deve essere indipendente dall’operatore economico, esente da conflitti di interessi e dotato di esperienza e competenze in materia ambientale, il quale dovrebbe poter verificare periodicamente i progressi compiuti dall’operatore economico rispetto a tali impegni e obiettivi, comprese le tappe fondamentali per conseguirli e mettere i risultati a disposizione dei consumatori.
Non basterà quindi che un’azienda annunci di essere carbon neutral entro il 2035 ad esempio, o che prometta di azzerare il consumo di plastica entro il 2030. Per non cadere nelle maglie del green washing secondo la Direttiva dovrà pubblicare un Piano credibile, con i progetti e le tecnologie che realizzerà in concreto per raggiungere quel target, quali risorse avrà stanziato a bilancio per raggiungere il target, quali risultati intermedi avrà raggiunto nel tempo, certificati da un soggetto terzo.
Sicuramente Jay Westerveld, mentre surfava nelle Fiji non avrà immaginato di aver “stanato” i fondamenti di una strategia di marketing che sarebbe diventata una pratica planetaria né di aver coniato un espressione che sarebbe stata adottata nelle leggi e nei libri per i decenni futuri. Questa Direttiva, pur se in forte ritardo, aiuta concretamente a fare dei passi avanti nella direzione indicata dal giovane surfista sia dal punto di vista culturale che da quello giuridico.
Lui, nel frattempo, non ha fondato una società di consulenza specializzata in comunicazione green sfruttando economicamente la sua intuizione, ma si è dedicato a preservare e rigenerare ecosistemi in pericolo e proteggere specie rare a rischio d’estinzione, come le piccole rane-grillo o i gamberi-vongola. Passione silenziosa. Azioni concrete. Il contrario del green washing.
*Raimondo Orsini direttore Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile