Dalla pelle alla tiroide, dal pancreas al colon-retto. I tumori, nel mondo, sono purtroppo in aumento e l’International agency for research on cancer (Iarc) prevede 30,2 milioni di nuovi casi all’anno entro il 2040. Parallelamente, anche l’impiego di farmaci anti-tumorali sta crescendo, a un tasso di circa il 10% annuo nei Paesi occidentali. E se da un lato i medicinali sono ovviamente fondamentali per contrastare la malattia, dall’altro il loro impatto ambientale non è certo trascurabile, al punto da essere classificati come “contaminanti emergenti”. A dare l’allarme sono i ricercatori dell’Institut national de la recherche scientifique (Inrs) dell’Università del Québec, in Canada, in un articolo di recente pubblicato sul Bulletin of Environmental Contamination and Toxicology.
I rifiuti finiscono nelle acque
“Al pari di tutti gli altri farmaci, i chemioterapici somministrati al paziente non vengono del tutto metabolizzati dall’organismo: una quota viene escreta attraverso l’urina o le feci“, spiega Valérie S. Langlois, una delle ricercatrici dell’ateneo canadese. “Tali sostanze di rifiuto non sono sufficientemente degradate negli impianti convenzionali di trattamento delle acque reflue e raggiungono così le acque superficiali e sotterranee con potenziali rischi per la vita acquatica”.
Un’analisi su cinque farmaci
Il gruppo di ricerca ha studiato, in particolare, le tracce di cinque farmaci rinvenute nelle acque, ovvero tamoxifene, utilizzato per il trattamento del cancro al seno; metotrexato, usato contro il linfoma non Hodgkin, un tumore del sangue; capecitabina, prescritta per trattare il tumore del colon-retto; ciclofosfamide e ifosfamide, entrambe impiegate per tenere a bada diversi tipi di cancro. Gli scienziati hanno poi analizzato le conseguenze di tali sostanze sugli embrioni del Pimephales promelas, un piccolo pesce d’acqua dolce dalla colorazione argentea.
La precedente ricerca
“In uno studio svolto in precedenza sulla stessa specie di pesci non avevamo riscontrato effetti negativi per quanto riguarda mortalità, schiusa delle uova, frequenza cardiaca”, riferisce Langlois. “Tuttavia, abbiamo osservato che l’ifosfamide aveva favorito lo sgonfiamento della vescica natatoria, organo fondamentale per mantenere la galleggiabilità. Se quest’ultimo non si gonfia, i pesci non possono, infatti, nuotare liberamente ed è improbabile che sopravvivano”.
Carenze nello sviluppo degli embrioni
A ciò si aggiungono i risultati dell’ultima ricerca, dalla quale emerge che le sostanze chimiche contenute nei farmaci influenzano negativamente, indipendentemente dalla loro concentrazione, la regolazione dell’ormone tiroideo negli embrioni, con possibili carenze nel loro sviluppo.
“Il corretto smaltimento dei farmaci non utilizzati e l’investimento in nuove tecnologie di trattamento delle acque reflue, in grado di filtrare i chemioterapici, sono essenziali”, sostiene l’esperta. “Azioni, queste, che devono anche essere supportate da normative mirate a ridurre l’inquinamento farmaceutico”.
Le analisi dell’acqua potabile
Allo stesso tempo è importante continuare la ricerca sugli effetti ambientali dei farmaci con l’obiettivo di comprenderne appieno l’impatto. In proposito, gli scienziati stanno cominciando a studiare i rischi per gli esseri umani derivanti dai residui di farmaci antitumorali che contaminano l’acqua potabile. Ricerche pionieristiche, nelle quali molti aspetti rimangono ancora sconosciuti. Nonostante ciò, uno studio comparso nel 2022 su Science of The Total Environment e realizzato dai ricercatori dell’Università di Porto, in Portogallo, aveva già dimostrato che la ciclofosfamide nell’acqua potabile può nuocere alla salute dei bambini. Sarebbe paradossale che si instaurasse un circolo vizioso in cui l’uso degli antitumorali favorisca un incremento proprio dei casi di cancro.