Le compagnie minerarie di tutto il mondo stanno preparando una nuova “corsa all’oro” per sfruttare le risorse che si trovano sul fondo degli oceani in tutto il pianeta indispensabili per perseguire la transizione energetica, ma il rischio di una distruzione senza precedenti della vita marina e degli habitat oceanici è molto concreto. “Si tratta di vera e propria violenza”, afferma la biologa marina Diva Amon.
Mentre molti guardano alle stelle come alla “prossima frontiera”, oltre l’80% degli oceani del mondo rimane inesplorato e le creature che vi abitano rimangono ancora un mistero. La tecnologia ha aperto profondità precedentemente impossibili, dai veicoli telecomandati (ROV) che possono viaggiare per circa 10 chilometri sotto la superficie, ai sommergibili (o sottomarini). Originaria di Trinidad, Amon ha utilizzato i sommergibili per esplorare le Bahamas, la dorsale medio atlantica e la Fossa delle Cayman, scendendo a profondità massime di 2,6 chilometri, lavorando fino a nove ore a stretto contatto con gli altri membri dell’equipaggio. L’abbondante vita che si trova negli oceani profondi è un mondo lontano dall’ambiente arido che molte persone potrebbero immaginare.
“È un’idea scellerata – spiega Amon, che fa parte dell’esecutivo della Deep Ocean Stewardship Initiative – non è assolutamente senza vita. Il mare profondo è il più grande ecosistema del Pianeta, il 96% di tutto lo spazio abitabile sulla Terra, quindi un serbatorio di biodiversità enorme. Mentre scendi, vedi la vita marina profonda, dai fuochi d’artificio bioluminescenti agli eterei paesaggi lunari. Ci sono centinaia di migliaia di specie nelle profondità marine, la maggior parte delle quali non è stata ancora scoperta. Sono diverse da qualsiasi cosa abbiamo visto prima: dagli squali luminosi ai granchi bianchi pelosi che sono in grado di coltivare batteri sul loro corpo, per poi cibarsene. È straordinario sapere di essere tra le prime persone a vedere una specie, un ecosistema, e questo accade quasi ogni volta che scendiamo nelle profondità marine. Ma non sei lì per fare un giro. C’è molto in gioco. Devi mettere da parte la meraviglia e lo stupore e portare a termine il lavoro”.
La corsa all’oro in fondo all’oceano
Le compagnie minerarie guardano da tempo alle enormi opportunità derivanti dall’estrazione in acque profonde, ma il dibattito sul futuro degli oceani del mondo è ormai diventato una corsa contro il tempo. Nel giugno 2021, la repubblica insulare del Pacifico Nauru ha attivato un meccanismo legale, noto come “regola dei due anni”, per conto della società Nauru Offshore Resources Inc (NORI), una sussidiaria del gigante minerario The Metals Company. La regola dei due anni permetterebbe l’estrazione mineraria su scala industriale di vaste aree di fondali marini in acque internazionali già dal luglio 2023. L’Autorità internazionale dei fondali marini (ISA), istituita nel 1994 dalle Nazioni Unite, ha ora meno di un anno per stabilire complesse norme che disciplinano l’industria mineraria in acque profonde. Costituita da 167 Stati membri e dall’Unione europea, l’ISA ha il compito di regolamentare e controllare tutte le attività legate ai minerali nell’area dei fondali marini internazionali e ha il dovere di garantire la protezione degli habitat nelle profondità dei mari. Ma se l’ISA non è in grado di stabilire regolamenti in quel lasso di tempo, le società minerarie potranno andare avanti in base a qualsiasi regola o linea guida in vigore in quel momento.
Scienziati, gruppi ambientalisti, comunità indigene, leader del settore e aziende concordano sul fatto che una scadenza così ravvicinata non consente abbastanza tempo per condurre ricerche al fine di comprendere gli ambienti oceanici profondi o il danno che l’estrazione mineraria in acque profonde causerebbe, come inquinamento, contaminazione dell’acqua, enormi disturbi sonori e di movimento, estinzioni di specie, distruzione dell’habitat, danni alle popolazioni ittiche globali e una riduzione dell’efficacia degli oceani nel moderare il clima del Pianeta. Per questa ragione, più di 650 scienziati ed esperti di politica provenienti da oltre 400 paesi hanno chiesto uno stop universale, per poter studiare meglio la questione.
“Nessuna attività mineraria è ancora avvenuta”, spiega Amon. “Ad oggi, sono state concesse 31 licenze esplorative, ed è stato fatto prima di sapere cosa esattamente viva in quelle zone. Stiamo vedendo aree minerarie pianificate in tre degli oceani del mondo, e su aree enormi, alcune grandi 75.000 chilometri quadrati, più o meno le dimensioni dello Sri Lanka. Non esiste un quadro normativo e manca il parere della scienza. Sappiamo che ci sarà perdita di habitat e di biodiversità, ma quali saranno gli impatti a catena? Sappiamo che le profondità marine svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del clima, nelle attività di pesca su cui fanno affidamento miliardi di persone. C’è un rischio enorme nel precipitarsi in avanti”.
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Transizione energetica a discapito degli oceani?
Le compagnie minerarie, tuttavia, sperano di iniziare a lavorare il prima possibile. Oltre ai profitti, si sottolinea la necessità sempre crescente dei minerali disponibili nelle profondità del mare, come rame, cobalto, nichel e manganese, elementi paradossalmente essenziali per una transizione verso un pianeta più verde, poiché necessarie alla costruzione di cose come batterie delle auto elettriche e turbine eoliche.
“Il processo in discussione per l’estrazione non è assolutamente verde”, fa notare Amon. “Risulterà in una perdita di biodiversità e di habitat su una scala mai vista prima nell’oceano. Questo danno sarà irreversibile. Scavare nelle profondità marine per raccogliere metalli per arginare la crisi climatica sarebbe come fumare per liberarsi dallo stress”.
La Deep Sea Conservation Coalition, un gruppo di oltre 100 organizzazioni internazionali, tra cui Greenpeace, Oceana, SharkLife e Save Our Seas, ha invitato l’ISA ad accettare una moratoria globale sull’estrazione mineraria in acque profonde, con colloqui che si sono svolti in Giamaica all’inizio di quest’anno, e altri pianificato nei prossimi 12 mesi, poiché la scadenza imposta da Nauru incombe.
La maggior parte dell’interesse commerciale si concentra attualmente sullo sull’estrazione nelle profonde pianure abissali della Clarion Clipperton Fracture Zone (CCZ) a 4.000-6.000 metri sotto la superficie nell’Oceano Pacifico orientale, tra il Messico e le Hawaii. Diciassette dei 31 contratti di esplorazione dell’ISA riguardano nodi in questa regione. L’ISA ha concesso due contratti per l’esplorazione nell’Oceano Indiano centrale e nel Pacifico nord-occidentale.
“I tre principali tipi di estrazione mineraria in acque profonde presi in considerazione dall’ISA: estrazione di noduli dal fondale marino profondo, estrazione di depositi di sfiati idrotermali (per oro, argento, rame e zinco) e rimozione di “croste di cobalto ferro-manganese” dai fianchi delle montagne sottomarine – sarebbe devastante per la vita marina”, afferma Matthew Gianni, co-fondatore e consigliere politico per la Deep Sea Conservation Coalition. “Ogni operazione mineraria comporterebbe lo strip mining su un’area di circa 10.000-12.000 chilometri quadrati di fondale marino nel corso di una licenza mineraria di 30 anni. Una singola licenza mineraria probabilmente genererà sedimenti dannosi per la vita marina su decine di migliaia di chilometri quadrati di fondale marino.
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Lo scarico di sedimenti e acque reflue dalle navi di raccolta potrebbe percorrere centinaia di chilometri attraverso l’oceano, con un potenziale impatto su pesci, specie migratorie come balene e tartarughe marine ed altre presenti nelle acque profonde. La perdita di biodiversità sarebbe inevitabile e permanente se l’estrazione mineraria nelle profondità marine fosse consentita”.
Le aree in discussione sono lontane, in acque internazionali, e non ricadono sotto la giurisdizione di un singolo paese. “Nessuna nazione possiede territori nell’area internazionale dei fondali”, spiega Gianni. “In base al diritto internazionale, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), il fondale marino oltre i limiti della giurisdizione nazionale è designato come ‘patrimonio comune dell’umanità’. Appartiene a tutti noi e l’ISA è obbligato ad agire per conto e a beneficio dell’umanità nel suo insieme”.
ONU in impasse
Alla Conferenza oceanica delle Nazioni Unite in Portogallo nel giugno 2022, Palau, Fiji e Samoa sono diventati i primi paesi a chiedere formalmente un’alleanza globale per sostenere una moratoria sull’estrazione mineraria in acque profonde. In favore della moratoria, si sono schierati anche Vanuatu e Repubblica Dominicana, a cui si sono associati altri paesi come Cile, Costa Rica, Ecuador, Francia, Germania, Micronesia, Nuova Zelanda, Panama e Spagna, evidentemente preoccupati per gli ecosistemi alle porte dei propri paesi. “Questo annuncio è importante perché avvia quello che può diventare un processo politico verso un’azione organizzata nel sistema delle Nazioni Unite, incluso l’ISA”, spiega Taholo Kami, consulente per l’Oceano Pacifico per il Waitt Institute.
Intanto, il 31 marzo scorso, l’ONU ha concluso due settimane di incontri sull’argomento senza trovare un accordo sulle regole che dovrebbero guidare l’estrazione di minerali dai fondali marini, ma il processo che porterà l’ISA all’approvazione delle richieste di permesso per lo sfruttamento delle miniere sottomarine non si ferma. Non sono quindi stati sufficienti 24 giorni di negoziati a Kingston in Giamaica, per trovare un accordo. Nauru, le isole Cook e la Cina che spingono fortemente per far approvare il deep-sea mining. La Cina, in particolare, è uno dei paesi che maggiormente spinge per la diversificazione degli approvvigionamenti di materie prime necessarie per la transizione energetica.
Sempre lo scorso mese, i delegati delle Nazioni Unite hanno però accettato e, cosa più importante, firmato un trattato d’alto mare. L’alto mare costituisce i due terzi dell’oceano e copre quasi la metà del Pianeta. Il nuovo Trattato mira a contribuire a collocare il 30% dei mari in aree protette entro il 2030, per proteggere e conservare la biodiversità marina in aree al di fuori della giurisdizione nazionale. Ma i negoziati non fermano il processo e la maggior parte delle sessioni sono a porte chiuse, quindi molti ambientalisti ne contestano la trasparenza e il rischio che gli interessi economici prevalgano è molto alto.
“La regola dei due anni doveva essere una valvola di sicurezza nel caso in cui i negoziati raggiungessero un’impasse. Non è stata pensata per imporre scadenze arbitrarie a negoziati sostanziali e in buona fede”, afferma Jessica Battle, responsabile del No Deep Seabed Mining del WWF. “Il mondo non deve essere spinto verso una nuova industria estrattiva distruttiva da pochi sconsiderati che vogliono trarre profitto”.