“Sono un leader, sono un combattente e anche se mi uccideranno il mio sangue sarà come seme. Noi Karipuna non lasceremo la nostra terra: il Brasile e il Pianeta hanno bisogno di noi, del nostro amore vero per la Natura”. Adriano Karipuna, 36 anni, abbina a jeans, camicia e giubbotto il copricapo tipico delle popolazioni della foresta amazzonica. Il suo abbigliamento dice tutto di lui, uomo radicato nella sua tradizione, che studia le leggi e la storia di un’altra cultura per opporsi alle sue prevaricazioni. Karipuna è stato a Roma per la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “AMAzzonia”, promossa dall’associazione di cooperazione internazionale COSPE, e ora è in Europa per far conoscere la situazione del suo popolo, le minacce a cui lui e la sua gente sono costantemente sottoposti e le politiche di Jair Bolsonaro che stanno distruggendo la foresta amazzonica.
La vostra comunità nel 1970 si era ridotta a sole 4 persone, oggi siete circa una sessantina. Come siete sopravvissuti?
“Mia madre racconta di come la mia gente abbia iniziato a morire all’inizio del XX secolo in conseguenza delle malattie che ci venivano trasmesse dai funzionari del governo, che arrivavano per proteggerci e per negoziare sull’estensione del nostro territorio, e ancora prima da chi lavorava alla costruzione della ferrovia. Prima eravamo 4mila, poi i virus, le aggressioni dei siringueros e di tutti coloro che volevano accaparrarsi le risorse della nostra terra ci hanno quasi portato a scomparire. Siamo stati deportati a Jassì, siamo stati massacrati e stuprati con ferocia inaudita, la nostra storia recente è un lungo elenco di violenze perpetrate su tutti noi. Per sopravvivere ci siamo dovuti piegare e rinunciare a una grossa parte del nostro territorio, che prima si estendeva su 243mila ettari e ora è di soli 153mila ettari. Se non avessimo accettato la proposta del Funai, l’ente governativo responsabile della mappatura e della protezione delle terre delle comunità indigene, di rinunciare a quasi la metà del nostro territorio avremmo perduto tutto”.
Nonostante gli accordi, quel che vi resta è fortemente minacciato da ulteriori attività di estrazione.
“Sì, nel 2007 ci sono state anche le costruzioni di due dighe idroelettriche, che hanno avuto un enorme impatto sul nostro territorio, né si arresta l’attività di deforestazione, che riduce di continuo le nostre risorse. Viviamo di caccia e di raccolta, ma abbiamo sempre meno noci amazzoniche e bacche di açaí. Spesso abbiamo soltanto farina di manioca per mangiare e da vendere. Se non avessimo l’aiuto delle organizzazioni non governative non potremmo sopravvivere”.
In territori come il vostro gli effetti del cambio climatico si sentono di più?
“Certo, non è necessario essere scienziati per accorgersi di quel che sta accadendo. La deforestazione e il cambio climatico stanno cambiando in modo dirompente la foresta, i nostri fiumi sono secchi, il caldo è sempre più intenso, la frutta, gli animali e gli uccelli sono meno e sono diversi. Al tempo stesso vediamo animali che prima non c’erano e poiché ci sono meno uccelli a causa della deforestazione ci sono più insetti. I mutamenti più rapidi li abbiami visti soprattutto dal 2017 in poi”.
Come cercate di fare fronte a questi disastri?
“Per noi non è necessario cambiare, la nostra cultura si fonda sul rispetto profondo per la natura. Sappiamo quando e come raccogliere i frutti per assicurarci che ci bastino e la foresta è un luogo sacro in cui entrare con grande attenzione. Quando cacciamo non uccidiamo mai una madre con i cuccioli e se nelle nostre reti finiscono pesci piccoli li ributtiamo in acqua. Preferiamo fare la fame che distruggere una fonte di cibo: i brasiliani dovrebbero imparare da noi, il mondo dovrebbe imparare il nostro vero amore per la natura”.
Da tempo si impegna per far conoscere il dramma del vostro popolo e quanto accade in Amazzonia. Ha parlato all’Onu e in numerosi consessi internazionali. Quali sono le reazioni che la stupiscono di più?
“Ovunque io vada, percepisco pregiudizi e razzismo. Per me, oltre al razzismo che divide per colore di pelle, ci sono altre tre forme di razzismo: strutturale, patrimoniale e ambientale. Quello strutturale riguarda gli organi della società da cui le comunità come la mia sono tenute fuori, poiché ci impediscono di lavorare nelle strutture pubbliche. Servirebbero delle quote, perché è chiaro che per competere con chi vive in città dovresti essere il numero uno. Il razzismo patrimoniale è quello esercitato dagli enti come il Funai o il ministero della salute, che dovrebbero proteggerci e invece, poiché le persone che ci lavorano hanno preconcetti e sono razzisti, non tutelano i nostri diritti. Si è visto anche con la pandemia, i vaccini ci sono stati negati. Infine c’è il razzismo ambientale: a noi dicono che poiché siamo pochi ci basta poco territorio, ma allora perché esistono i grandi proprietari terrieri? Questo tipo di razzismo è anche quello che permette il varo di leggi che consentono di distruggere la foresta e di cacciarci dalla nostra terra”.
Come è iniziato il suo impegno per i diritti del suo popolo?
“Sono sempre stato un bambino curioso. Anche se andare a scuola significava essere bullizzato e fare enormi sacrifici, perché per noi indios è tutto più difficile, ho voluto imparare a leggere e a parlare il portoghese. Ho letto Marx, Durkheim, Martin Luther King e tanti libri di storia. Ho capito che la lotta è indispensabile per conquistare i propri diritti e che nella storia non siamo gli unici ad essere sterminati, ad essere stati cacciati dalle nostre terre. Ci ho messo molto più tempo di chi vive in città per essere ammesso all’università, se non fosse stato per il razzismo e i pregiudizi ci sarei potuto arrivare prima. Ma anche se solo adesso sono iscritto al secondo anno di legge non penso agli anni trascorsi come a una perdita di tempo, perché mi sono serviti per capire, studiare e conoscere”.
Perché studia leggi?
“Volevo fare qualcosa che fosse utile per il mio popolo. Avevo pensato anche a medicina. Poi mi sono reso conto che per quanto imparare il linguaggio giuridico fosse difficile, molte delle cose che dovevo studiare le avevo già affrontate per conto mio, quando cercavo di contrastare le ingiustizie contro il mio popolo”
Qual è il messaggio che spera di diffondere in questo tour in Europa?
“I brasiliani, tutti voi non vi rendete conto di quanto dovete a noi indigeni, il nostro ruolo è fondamentale per ricordarvi che bisogna proteggere la natura, bisogna investire sull’istruzione e la tecnologia non deve lasciare indietro nessuno. Dovete capire che non siamo soltanto noi a stare male, noi siamo forse l’esempio più chiaro di quel che accade con lo sfruttamento estremo delle risorse, ma è tutto il mondo ad essere in crisi. Ci sono sempre più poveri, manca il lavoro e pochi ricchi sono sempre più ricchi, non soltanto in Brasile. Quanto a noi, spero di far conoscere le pressioni che subiamo per allontanarci dalla nostra terra, il terrore in cui vivono le donne e i bambini che vengono aggrediti lungo il fiume o mentre vanno in città. E spero di far capire che nonostante tutto questo non ci arrendiamo. Siamo lottatori, i Karipuna non scompariranno”.