Il Nord del mondo, l’Occidente, allontana il diverso mentre accoglie il “simile”. Ne fanno le spese le nazioni più povere. Ma alle ondate di migranti “economici” si stanno aggiungendo i rifugiati climatici, in fuga dalle terre bruciate dalla siccità o devastate dalle alluvioni causate dal climate change, di cui è responsabile proprio quel mondo ricco che costruisce muri. Quelli dei cambiamenti climatici sono effetti “simili a una guerra” secondo Savo Heleta, 43 anni, bosniaco, analista e docente di International Education all’università sudafricana di Durban, che ha vissuto sulla propria pelle la condizione di sfollato durante il conflitto nell’ex Jugoslavia. Al We Make Future festival di Rimini è arrivato per raccontare delle sue ricerche, che si concentrano sulle ineguaglianze nel Sud del mondo e sulle ricostruzioni post belliche. Definisce tutto questo “un nuovo Apartheid su scala globale”.
Professor Heleta, è venuto a Rimini a parlare di climate change e di una “nuova cittadinanza globale”. Cosa intende?
“È un termine che sentiamo molto nell’educazione superiore, nelle università. Ne parla anche l’Unesco. La global citizenship è un’idea nobile, ma ha molti problemi. Il mondo non è piatto, è un posto molto complicato, ingiusto e iniquo. Viene dall’idea cosmopolita che è molto euroamericano-centrica: per essere considerata un cittadino globale, una persona deve essere in grado di fare esperienza del mondo. E molte persone, specificamente del Sud globale, Africa, Medio Oriente, Sudest Asiatico e da molte parti dell’America latina, non possono farlo. Lo chiamiamo privilegio del passaporto, chi ha il passaporto europeo o americano non ha problemi. Se vieni da molti Paesi del Sud invece devi programmare molti mesi in anticipo, ottenere visti, in molti casi senza ottenerli. Anche studiosi che oggi sono qui non potrebbero avere un visto per andare a parlare in Australia o negli Stati Uniti, per fare il loro lavoro, un lavoro importante per il mondo. Ma per la maggioranza delle persone il mondo non è aperto”.
Lo vediamo anche nell’accoglienza ai migranti.
“Ogni volta che vediamo una crisi di rifugiati, se interessa persone dalla pelle bianca, cristiani, i confini si aprono immediatamente. Come in Ucraina adesso”.
Lei ha vissuto la guerra in Bosnia quando era un ragazzo. Era tra gli sfollati?
“Ero uno sfollato interno, non all’estero. Vivevo a Goražde, uno dei posti più difficili. Una città sotto assedio. Abbiamo perso tutto e non siamo più tornati dove abitavamo. Quando parlo di rifugiati, so di cosa parlo. Nello stesso periodo in cui il mondo aiutava noi, in Rwanda lasciava che avvenisse un genocidio: tra 600 mila e un milione di persone uccise in appena tre mesi. Perché noi sì e loro no? Che ne è degli altri, che non sono bianchi? Qualcuno è visto come un essere umano, altri no. Non smetterò mai di parlare e lottare contro questa mentalità”.
Cosa ha a che fare tutto questo col climate change?
“A tutto questo si aggiungono i cambiamenti climatici. In un rapporto dell’Ipcc si parla di chi lo ha causato. L’uomo, certo, ma con differenze: gli Usa hanno contribuito per la maggior parte circa 23%, l’Europa il 16%, l’Africa tutta circa il 7%. Allora: il mondo ricco ha contribuito al riscaldamento globale e alla distruzione, e le nazioni più povere sono le più colpite. La nuova cittadinanza globale deve prendere le istanze della transizione di giustizia, e la riparazione del clima. Qualcuno deve pagare. Non si tratta di fare la carità, devi risarcire per qualcosa che hai rotto. In tribunale funziona così. Se vogliamo definirci cittadini globali, dobbiamo guidare questa discussione”.
Lei studia queste dinamiche e insegna in un Paese che ha sperimentato l’Apartheid. Vede dei parallelismi in quest’epoca?
“Penso che questo sia l’Apartheid su scala globale. È incredibile come la maggior parte dei muri siano stati costruiti sui vari confini del Nord del mondo. L’Europa è fortress Europe, lo abbiamo visto anche con Trump negli Stat Uniti”.
Il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici hanno anche innescato nuove migrazioni, di persone in fuga da siccità e condizioni meteo divenute estreme. Sembra un punto di non ritorno.
“Per qualcuno lo è. Ci sono piccoli stati insulari che presto spariranno mentre gli oceani salgono. Negli ultimi mesi in Somalia la siccità è stata talmente grave che circa un milione di somali sono diventati sfollati interni . Qualcuno ha provato a raggiungere la Libia per arrivare in Europa. E la maggior parte sono stati respinti. La Banca mondiale ha stimato che oltre 130 milioni di persone diventeranno sfollati a causa solamente del climate change entro il 2050: 28 anni sembrano tanto tempo invece è davvero dietro l’angolo. Ma per alcuni i confini sono aperti e per altri no. Siamo destinati ad avere crisi terribili”.
Vengono ancora definiti migranti economici, sarebbe più giusto considerarli come richiedenti asilo, rifugiati di guerra?
“Il livello di sofferenza è lo stesso, l’alluvione ti porta via la casa, perdi tutto, ha lo stesso effetto di una bomba. Ma la vecchia convenzione per i rifugiati e richiedenti asilo era contemplata principalmente per ragioni di guerra, legate a conflitti, e persecuzioni politiche. Non c’è un modo legale per trattare i rifugiati o i migranti climatici per dar loro asilo. Ma il mondo ora è un posto diverso. E 130 milioni di persone entro 28 anni si metteranno in movimento a causa delle alluvioni, degli incendi, della siccità, delle condizioni meteo estreme, delle isole che spariscono. Le istituzioni globali e nazionali, devono prepararsi. Dobbiamo pensare ora a come proteggere i rifugiati, come accoglierli o supportarli”.
L’accoglienza e l’immigrazione rischiano spesso di alimentare sentimenti xenofobi cavalcati dalle destre. Cosa ne pensa?
“Questo creerà problemi. La politica peggiora sempre più in tutto il mondo non è solo un problema europeo o statunitense. Ho fatto molte ricerche, soprattutto sul ruolo della politica nell’alimentare la xenofobia e la retorica anti immigrati per nascondere i propri fallimenti. I politici sudafricani hanno fallito nel migliorare le vite della maggioranza dei cittadini, e il bersaglio più facile che non vota e non si può lamentare sono gli immigrati. Da una parte parlano dell’unità dell’Africa e dall’altra dicono che gli immigrati dello Zimbawe sono la ragione della povertà, ma non è vero. Dicono che ci sono cinque volte gli immigrati che ci sono realmente. Molto spesso parliamo dell’Europa o degli Usa che hanno problemi con la xenofobia, e sì, è un loro problema. Ma sembra che abbiano studiato tutti sullo stesso libro”.
Un altro slogan molto in voga in Italia è “aiutiamoli a casa loro”. Cosa ne pensa?
“Molta della mia ricerca è focalizzata sul continente africano, e sul colonialismo europeo. Walter Rodney ha scritto molti anni fa il libro How Europe Underdeveloped Africa, Il potere coloniale non ha mai pagato il prezzo per quello che ha fatto, con lo schiavismo, la colonizzazione, lo sfruttamento delle risorse. In Africa non c’è un network di infrastrutture come in italia, ogni strada andava dalla miniera al mare. Il colonialismo è finito formalmente ma ora c’è la coloniality: le élite politiche africane al potere erano le persone in cui i colonialisti stessi avevano investito. La struttura creata per sfruttare l’Africa continua con la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, che controllano i Paesi africani attraverso il debito…”
La Cina da tempo è in Africa per sfruttare le risorse, è un nuovo colonizzatore?
“Si dice che bisogna combattere l’egemonia euroamericana ma dobbiamo assicurarci che non emerga alcuna altra egemonia. Anche quella cinese o russa, cioè un Paese diverso che fa le stesse cose”.
Quali soluzioni?
“Io di soluzioni non ne ho. C’è solo un Pianeta, ma ci sono un primo mondo, un secondo, un terzo. Noi tutti, soprattutto i giovani, dobbiamo fare pressione sui politici e decision maker, uno dei più grandi problemi è che le i politici pensano solo al breve termine, alla prossima elezione ma il climate change è qualcosa su cui dobbiamo investire a lungo termine. I giovani devono plasmare il mondo in cui dovranno vivere bene. Devono trovare il modo per far sentire la propria voce”.
Questa generazione ha espresso un movimento come i Fridays for future. Hanno maggiore consapevolezza. Vede una speranza in questo?
“Se fosse tutto nelle mani dei giovani, direi di sì. Ma ci sono politici finanziati dall’industria del petrolio, i grandi inquinatori, fanno quello che serve per far felici i finanziatori e non la popolazione. Figuriamoci se si preoccupano dei più poveri in Afghanistan. Però voglio chiudere con una nota di speranza. Molte persone nere in Africa, vittime dell’Apartheid, non ne vedevano la fine. Erano oppressi dai governanti e dall’esercito, ma hanno continuato a organizzarsi, hanno fatto qualsiasi cosa per un futuro che non potevano nemmeno immaginare. Per quello che ne sapevano, Mandela poteva anche essere morto in galera, ma continuarono a organizzarsi e lottare. E hanno sconfitto l’Apartheid”.