“Un caseificio vero. Ma niente mucche”. La startup israeliana Remilk apre la nuova era del latte. E lo fa in laboratorio. Non ci sono animali, non ci sono sostituti vegetali a simulare il cibo più tipico della nostra infanzia e oggi più diffuso (si stima che al mondo siano ancora 6 miliardi le persone che consumano latte vaccino e prodotti caseari). Al loro posto la scienza, attraverso un sofisticato processo di fermentazione di precisione, utilizzando lieviti opportunamente modificati, è riuscita a riprodurre proteine analoghe a quelle contenute nel latte di mucca.
Come avviene: in pratica il gene responsabile della produzione di proteine del latte vaccino viene inserito nel lievito sul quale agisce come una sorta di “manuale delle istruzioni”, insegnandogli come produrre le proteine in modo efficiente. Il lievito viene quindi messo all’interno di fermentatori, dove si moltiplica velocemente producendo vere e proprie proteine del latte, identiche a quelle prodotte dalle mucche, che vengono poi combinate con vitamine, minerali, grassi e zuccheri non animali (quindi senza colesterolo o lattosio), per formare ogni latticino. I suoi ideatori assicurano che il risultato sia indistingubile rispetto all’originale animale.
Di recente Remilk ha ottenuto negli Stati Uniti lo status di GRAS sulla base dei requisiti definiti dalla Food and Drug Administration (FDA): un riconoscimento che attesta la sicurezza del prodotto per il consumo umano e che ne sancisce la possibilità di ingresso nel mercato statunitense. Una vera e proprio rivoluzione: anche per questo ha avviato la costruzione di un mega stabilimento in Danimarca, destinato alla produzione, per un volume paragonabile a quello di circa 50 mila mucche.
Ma Remilk non è l’unica: quello del latte “sintetico” è un trend in crescita e appena agli esordi. In California anche l’azienda Perfect Day vincitrice ai World Food Innovation Awards 2022 nella categoria “Best Ingredient Innovation”, sostenuta anche da Leonardo DiCaprio, è stata autorizzata dalla FDA: ora oltre a un accordo con la Nestlè, il suo latte sintetico è disponibile in alcuni store di Seattle della catena Starbucks.
In Australia la startup Eden Brew ha già sviluppato latte sintetico per lo Stato di Victoria. Realtà simili stanno comparendo in tutti i continenti: a Singapore c’è TurtleTree che ha raccolto pochi mesi fa 30 milioni di dollari di capitale e ha aperto una nuova struttura per la ricerca e sviluppo a Sacramento (California). Ancora: in l’India troviamo l’azienda biotech Zero Cow Factory.
Quello della fermentazione di precisione è sicuramente un mercato in crescita: secondo lo studio del think tank RethinkX nel mercato statunitense genererà fino a un milione di nuovi posti di lavoro, in poco più di dieci anni. È una procedura sostenibile: per produrre in laboratorio la stessa quantità di latte di una fattoria serve il 99% in meno di suolo occupato, consente inoltre l’abbattimento delle emissioni degli allevamenti di bestiame e di tutta la filiera di produzione, avendo anche importanti effetti sul lato etico, connesso allo fruttamento animale.
Come la carne sintetica – oggi al centro di un complesso dibattito europeo, sulla possibilità di una sua introduzione nel mercato – il latte sintetico cerca di rispondere al crescente bisogno di trovare fonti alternative alle proteine animali. Il suo ingresso nel mercato italiano è ancora lontano. In compenso sempre più persone da anni hanno iniziato a prediligere l’opzione vegetale, anche qui, per motivi etici collegati all’ambiente o perché no, anche per moda.
Ma perche dovremmo limitare il nostro consumo di latte vaccino? Partiamo da alcuni dati: il suo impatto sull’ambiente supera qualsiasi alternativa di origine vegetale. Un solo litro di latte ha bisogno di 628 litri di acqua e di 9 metri quadrati di terreno per essere prodotto e emette 3 volte tanto la quantità di gas serra rispetto ad ogni alternativa plant based.
Tra il 1998 e il 2020 si stima che il consumo giornaliero di latte animale sia sceso dal 62,2% di popolazione (dai tre anni in su) che lo beveva almeno una volta al giorno al 48,1% (dati Assidai). E le grandi multinazionali ovviamente non stanno a guardare. Negli Usa i protagonisti del plant milk hanno un fatturato che si avvicina ai 16 miliardi di dollari, che dovrebbe triplicare entro il 2025. Il 40% di questo mercato è dalle bevande di soia e di mandorle mentre in Europa vengono predilette quelle ottenute dal riso, canapa, piselli, nocciole, cocco e anacardi.
Attenzione: mentre lo scorso febbraio negli Stati Uniti la FDA ha stabilito la possibilità di usare la parola “latte” anche per queste bevande – poiché è stato sancito che non ingenererebbe confusione tra i consumatori – in Europa è ancora vietato e i produttori sono costretti ad adottare altre formule per aggirare il problema, anche quella del “non latte”. Un limite che pare non arrestare i consumi crescenti anche se è necessario fare un distinguo, perché non tutte queste bevande hanno un impatto irrilevante nell’ambiente. Anzi.
Latte d’origine vegetale: limiti e vantaggi
Gli studi evidenziano che la meno impattante sarebbe quella ricavata dall’avena: una pianta che può crescere in tutto il mondo, poco costosa, fa bene al suolo, richiede poche risorse rispetto ad altri cereali – per produrne 4,5 litri di bevanda di avena sono necessari appena 49 litri d’acqua, favorisce l’adozione del processo della rotazione che arricchisce il suolo. Ancora: la sua impronta di carbonio è più bassa rispetto a quella del latte vaccino, di mandorla e di soia. L’uso di fertilizzanti è moderato e non impatta nell’ecosistema, anche animale. Al contrario il latte di mandorla richiede enormi quantità di acqua e di pesticidi: i mandorli vivono in media 25 anni, rendendo impossibile il processo di rotazione delle culture, minando così la biodiversità. Dei suoi effetti negativi è testimone la California: nei mesi invernali a cavallo tra il 2018 e il 2019 l’utilizzo smodato dei fertilizzanti ha portato alla morte di un terzo delle colonie americane di api, a causa della perdita di habitat, malattie e parassiti.
Anche le alternative di riso non sono tra le più consigliate: le risaie spesso allagate emettono metano che fuoriesce dal suolo e esce nell’atmofera contribuiendo all’inquinamento globale. Latte sintetico o latte vegetale dunque, non è sempre necessariamente a impatto zero sull’ambiente: nella nostra scelta è necessario prendere in considerazione numerosi altri fattori, come dove queste coltivazione avvengono, se in modo intensivo, come è realizzato l’imballaggio, se nei processi di produzione vengono adottate politiche di riduzione dell’impatto ambientale. Regola vuole che sia consigliabile scegliere comunque sempre aziende biologiche e locali, se possibile, anche se questo spesso e volentieri implica il dover fare i conti con una spesa più alta.
Già perché in Italia il latte vegetale è considerato come un bene di lusso, con un’imposta al 22 per cento contro solamente il quattro di quello vaccino, ritenuto invece un bene di prima necessità. Il dibattito è in corso, perché il prezzo rappresenta una sorta di barriera all’ingresso per molti consumatori.
Altri Paesi, oltre a non prevedere questo genere di imposte, hanno deciso di adottare strategie diverse: in Austria ad esempio, per spingere verso un consumo più consapevole, è possibile trovare nei supermecati bottiglie di latte misto, metà vaccino e metà di origine vegetale. Il risultato è che chi lo compra continua a consumare latte vaccino ( e in questo modo continuano a lavorare entrambe le industrie) ma la sua impronta ecologica è praticamente dimezzata.