“Non c’è tempo da perdere”. Perché – udite udite – potrebbero rimanere solo sessanta raccolti prima che i suoli della Terra siano talmente impoveriti da portare a una carestia mondiale e definitiva. Le folte sopracciglia si aggrottano e il tono si fa grave: Philip Lymbery non ama i mezzi termini. Direttore esecutivo di Compassion in world Farming, organizzazione internazionale per il benessere degli animali allevati a fini alimentari, e presidente dell’Eurogruppo per gli animali con sede a Bruxelles, è in libreria in Italia dal 17 marzo con Restano solo sessanta raccolti. Come raggiungere un futuro in armonia con la natura (480 pagine, 20 euro), edito da Nutrimenti per la collana Igloo (di Dora Di Marco la traduzione).

Un titolo apocalittico, ma all’interno c’è una ricetta per invertire il trend. Ripristinando il nostro pianeta per un futuro rispettoso della Natura. E insieme agli inquietanti focus sulla catena alimentare globale, sui mega-allevamenti, sull’abbandono delle campagne e sui prodotti chimici, si fanno largo, così, le storie di chi combatte per riportare alla vita i paesaggi rurali. O ripensa nuovi metodi di agricoltura e allevamento. Classe 1965, visiting professor nell’Università di Winchester, appassionato ornitologo, Lymbery racconta a Green&Blue perché non è ancora detta l’ultima parola. Forse.

Suggerisce l’approccio delle ‘tre R’: rigenerazione nell’agricoltura, riduzione degli alimenti di origine animale e rinselvatichimento del suolo. A che punto è la consapevolezza dell’opinione pubblica sulla necessità di adottare questo paradigma? E davvero la politica è disposta a investire in questa rivoluzione culturale?

“Se la consapevolezza sull’urgenza di combattere il cambiamento climatico è cresciuta enormemente, lo stesso non si può dire per la necessità di allontanare il sistema alimentare dall’agricoltura intensiva. Purtroppo, la verità è che se non ci si allontana dall’agricoltura intensiva – con la sua forte dipendenza da pesticidi, fertilizzanti chimici e gabbie per animali – sarà difficile affrontare il cambiamento climatico o il degrado dell’ambiente.

Per questo motivo sono convinto che la nostra unica certezza per gli anni a venire è che un cambiamento radicale è inevitabile. L’agricoltura intensiva è una delle principali cause proprio della scomparsa di ciò che è indispensabile alla produzione della maggior parte del cibo nel mondo: il suolo. Il terreno si sta deteriorando a un ritmo tanto veloce da rischiare di diventare inutilizzabile o perso del tutto entro il tempo di una vita umana. Secondo le Nazioni Unite, se continuiamo così il mondo potrebbe avere a disposizione ancora solamente sessanta raccolti. E poi? Niente suolo, niente cibo, fine dei giochi. La scomparsa del suolo, la sofferenza degli animali e il futuro delle nuove generazioni sono interconnessi: ecco perché dobbiamo mettere fine all’industrializzazione delle campagne, all’agricoltura intensiva e all’allevamento intensivo”.


Ha scritto, a margine dei suoi viaggi nell’Italia rurale, che l’immagine prevalente è quella di una terra ormai completamente priva di animali al pascolo. Gli animali sottratti alla terra per essere allevati al chiuso. Come è potuto succedere secondo lei?

“Nei giorni in cui attraversavo i campi, le valli e le pianure della ricca campagna italiana, in Pianura Padana, non ho visto neanche un animale allevato all’aperto. È un paradosso che mi è rimasto impresso fin da allora. Ho scoperto che gli allevatori della regione agricola più ricca d’Italia avevano dimenticato come tenere gli animali all’aperto. Avevano proprio un gap. Non riuscivano a capire perché non fosse giusto tenerli chiusi tutto il giorno, tutti i giorni. Non riuscivano a vedere il paradosso di far crescere e tagliare l’erba, per poi darla da mangiare a delle vacche rinchiuse nelle stalle. Avevano perso di vista il fatto che a suini e galline piace sentire l’aria fresca e il sole proprio come a noi. E sa qual è la cosa più paradossale di tutte?”.

Ci dica: quale?

“Non riuscivano a comprendere come ciò compromettesse la qualità del cibo stesso. È una situazione che negli ultimi decenni è stata aggravata dalla diffusione dell’agricoltura intensiva di stampo statunitense nelle campagne italiane ed europee, dove animali che dovrebbero pascolare sono stati portati via dai campi e confinati al chiuso. Privati delle loro diete naturali a base di erba e foraggio, vengono alimentati con cereali coltivati in enormi distese di terreno in cui si utilizzano sostanze chimiche che hanno distrutto gran parte della fauna selvatica della campagna. Se vogliamo un sistema alimentare sostenibile, dobbiamo riportare gli animali allevati alla terra, in fattorie a rotazione, lasciati liberi di nutrirsi al pascolo come Natura vuole e intervallati da colture. Questo, insieme a una riduzione della quantità complessiva di carne e latticini che vengono consumati, è fondamentale per impedire che il nostro sistema alimentare diventi la causa della rovina della nostra società. Tutto ciò mi fa tornare in mente una frase pronunciata da Giorgio Locatelli, chef italiano di fama mondiale: ‘È meglio mangiare dell’ottima carne una volta alla settimana, che riempirsi ogni giorno di carne scadente e proveniente da animali allevati senza cura. Dobbiamo abituarci alla qualità, non alla quantità'”.


In Italia si sta molto parlando dell’apertura del mercato al ‘novel food’ costituito dagli insetti, che incontra la resistenza di una parte del Paese, molto tradizionalista. Lei solleva anche alcune perplessità sulla sostenibilità degli allevamenti degli insetti. Perché non crede sia la strada giusta per un consumo di proteine più etico?

“La ragione principale addotta per l’allevamento di insetti è la necessità di nutrire una popolazione in crescita, un’argomentazione fasulla in quanto nel mondo si coltiva già abbastanza cibo per sfamare il doppio dell’attuale popolazione umana. Una delle cause principali che porta le persone a soffrire la fame a livello globale è che il cibo che potrebbe servire a nutrire quattro miliardi di persone viene somministrato ad animali allevati, sia che si tratti di polli, vacche o grilli. Come altri animali allevati in modo intensivo, gli insetti sono comunemente nutriti con cereali e soia. L’allevamento di insetti, sia per l’alimentazione umana che per quella animale, consuma più cibo di quanto ne produca. L’allevamento di insetti su scala industriale mina quindi la nostra capacità di produrre cibo a sufficienza per tutti, oggi e in futuro”.

Molto interessante il capitolo dedicato agli oceani. In Italia la tutela della pesca artigianale, per sua natura sostenibile, è un tema cruciale. Come può essere competitiva, secondo lei, con la pesca industriale?

“È fondamentale che i decisori politici al governo si rendano presto conto della necessità di sostenere pratiche sostenibili, e non quelle che danneggiano il pianeta. Per questo, bisogna garantire sussidi e incentivi a pratiche realmente sostenibili e toglierne a quelle che minacciano la nostra capacità di nutrirci in futuro. Un approccio sostenibile ai nostri mari è fondamentale tanto quanto l’allevamento sostenibile. Entrambi sono essenziali se vogliamo garantire un futuro ai nostri figli”.


Tra le possibili soluzioni cita il ricorso alla carne coltivata, purché si abbattano i prezzi e se ne aumenti la produzione. Che prospettive ci sono?

“La carne coltivata si preannuncia come elemento perturbatore del mercato globale della carne. È prodotta a partire da cellule staminali prelevate in modo innocuo da animali vivi, poi coltivate in una miscela di nutrienti in un bioreattore. Non sono necessari componenti animali. Una replica della natura, ma senza la macellazione. Si tratta di un’idea che per molto tempo è rimasta nel mondo della fantascienza, apparentemente fantasiosa e impossibile da realizzare. Ora è diventata una grande industria che ricerca, coltiva e già mette prodotti in tavola a clienti paganti. Ha superato i confini della fantasia e ha attirato l’attenzione dei politici, come dimostra il via libera dello scorso anno in un executive order del governo statunitense. Secondo le ultime previsioni, la carne coltivata potrebbe assicurarsi il 10% del mercato della carne entro il 2030 e addirittura il 35% entro il 2040”.


Un ampio capitolo riguarda la pandemia: quale ritiene sia la principale lezione che dovremmo fare nostra?

“Forse uno dei più grandi insegnamenti che possiamo trarre dalla crisi del Covid-19 è che, se non mettiamo fine agli allevamenti intensivi, la prossima pandemia potrebbe nascondersi nel nostro piatto. Ci ha dimostrato che il benessere delle persone, degli animali e del pianeta sono interconnessi. Proteggere le persone significa proteggere anche gli animali. Sebbene si ritenga che il Covid-19 sia nato dal maltrattamento degli animali e dal commercio illegale di animali selvatici, presenta forti analogie con altri virus che hanno avuto origine in allevamenti intensivi. Sia l’influenza suina che l’influenza aviaria – che hanno origine nei maiali e nei polli – sono state devastanti. Si stima che la pandemia di influenza suina del 2009 abbia ucciso circa mezzo milione di persone in tutto il mondo. La prossima pandemia potrebbe provenire da un maiale o un pollo rinchiuso in spazi ristretti, animali trattati come merce e nutriti con i frutti della deforestazione”.


Spazi ristretti, appunto. In questi giorni sta facendo notizia l’apertura, in Cina, di un grattacielo di 26 piani con oltre 600mila maiali. Non abbiamo compreso la lezione?

“Il passaggio ai cosiddetti allevamenti multipiano di suino è uno sviluppo particolarmente preoccupante. L’obiettivo della Cina è quello di allevare più suini in un unico sito di chiunque altro al mondo: circa dieci volte più grande di una tipica struttura di allevamento americana. Qualcosa come più di due milioni di suini all’anno. L’impulso a creare questi mega-allevamenti è arrivato in risposta a una massiccia epidemia: la peste suina africana, che ha spazzato via circa la metà della produzione dell’industria suinicola cinese. Tenere gli animali confinati in numero sempre maggiore rischia solo di aggravare la minaccia di malattie. Piuttosto che ripetere gli errori dell’allevamento intensivo, un modo di gran lunga migliore di procedere è quello di riconnettere la produzione alimentare alla natura, abbracciando un’agricoltura rigenerativa e agroecologica. Un’agricoltura rispettosa della natura in cui gli animali, in quanto esseri senzienti, possano muoversi liberamente senza soffrire, e provare la gioia di essere vivi”.