Andavadoaka, sud-ovest del Madagascar. Un villaggio di pescatori in massima parte di capanne e casette di legno sparse su un tratto di costa di una bellezza mozzafiato. Un mondo antico, isolato, a cui si accede attraverso un viaggio lungo e difficile, il cui ultimo tratto, un’intera giornata di pista di sabbia, è come una progressiva immersione in un mondo sempre più lontano dalla modernità. Eppure, anche in un mare silenzioso che non conosce il lacerante fragore dei motori marini e sul quale piccole e grandi piroghe scivolano sull’acqua come elementi di un mondo ancestrale, lei è lì. Dove la nostra “civiltà” fa fatica ad arrivare, la plastica è giunta da tempo. Portata da lontano dalle onde e dalle correnti o meno frequentemente, dopo un lungo viaggio via terra, spesso a bordo di carretto trainato da zebù sotto forma di bustine di improbabili cosmetici o di bottiglie di “preziose” bevande.
Arriva comunque e ovunque e si deposita invadendo spiagge incantate e polverose stradine di villaggio. Tollerata come un fastidio di cui non ci si riesce a liberare anche se se ne percepisce l’aspetto deleterio e nocivo. La grande tartaruga di filo di ferro, un contenitore per la plastica donato da un artista sconosciuto, che troneggia sui semplici banchetti del piccolo mercato del villaggio, è l’espressione concreta di questa percezione. Tante mani l’hanno riempita. Mani di semplici pescatori Vezo e forse di nomadi Mikea. Persone che hanno messo al suo interno vecchie bottiglie e taniche bucate… Ma lì è rimasta. Non esiste ovviamente nessuna possibilità di riciclo, ma neppure il modo per portare altrove quei rifiuti. Non ci sono mezzi. E allora la fastidiosa presenza è destinata a rimanere parte dell’ambiente, a deturparlo e a degradarlo.
Gli stessi volontari italiani, che da tanti anni gestiscono il piccolo Ospedale locale che fornisce cure gratuite ai popoli della costa, hanno finito per farci l’abitudine. “Che peccato”, “come sarebbe più bello se…”. Fastidio, indignazione, impotenza. Non dissimile dal sentimento degli abitanti di moltissime nostre città assediate dai rifiuti. Ma un giorno qualcosa succede. È solo una piccola modifica nel modo di pensare, un impercettibile cambio di verbo: dal “si dovrebbe trovare il modo di pulire”, al “si deve”…
È successo una sera, un momento-chiave in cui tutti hanno guardato nella stessa direzione, immaginando che la popolazione presa dalle mille impellenti necessità del duro vivere quotidiano potesse condividere lo stesso sguardo. Quasi un’eresia antropologica. Puliamo la spiaggia, puliamo il villaggio! Non in un futuro ipotetico è lontano, ma adesso… Superata la rassegnazione le idee esplodono: coinvolgere tutti! Parlarne con il capo villaggio, preparare manifesti (scritti ovviamente a mano), la scuola elementare… gli infermieri locali sono entusiasti. Ne parleranno al prete chiedendo un annuncio in chiesa. Poi, come sempre, tra le luci dell’entusiasmo si cominciano ad intravedere le difficoltà. Difficoltà rese più acute dalla realtà del posto: dove la mettiamo? Non abbiamo sacchi. Come la spostiamo? Non abbiamo mezzi. Dove la portiamo e come la smaltiamo? Siamo circondati da chilometri e chilometri di terra sabbiosa coperta di grandi arbusti spinosi e semi-desertica, ma non c’è un luogo, un buco, una… discarica. Nulla.
I villaggi riutilizzano quasi tutto. Gli animali mangiano i rifiuti organici, la legna si decompone, il poco vetro si riutilizza. L’ospedale ha un suo piccolo buco e una sorta di “inceneritore”. Non esiste una raccolta dell’immondizia. In senso stretto non esiste immondizia, a parte la maledetta plastica. Ma l’ottica è cambiata radicalmente. Nella vita di ogni giorno abbiamo tutti pensato di coinvolgere il vicinato e pulire finalmente a fondo la via in cui viviamo. Ma non siamo mai andati oltre.
Qui invece abbiamo fatto il grande salto. Abbiamo deciso, abbiamo anche una data: il prossimo fine settimana. Anzi, forse è meglio anticipare a giovedì. Ma il tarlo, la preoccupazione di tutti, espressa a mezza voce, era quella di ritrovarsi da soli. In primis perché sarebbe stato impossibile pulire chilometri di spiaggia e anche perché l’obiettivo vero era il coinvolgimento, lo sviluppo di una consapevolezza trasversale tra persone con esperienze di vita così diverse. Una rivoluzione multietnica e multiculturale, un progetto ambizioso.
Lo scoglio apparentemente insuperabile sembrava in realtà quello di trovare un mezzo per portare la plastica lontano dal villaggio, in un posto dove fosse possibile seppellirla. Ma quando si è lanciati verso una meta, le idee arrivano sempre. Il lussuoso resort sulla punta, ad esempio. Una realtà completamente avulsa dal contesto, meta di un turismo esclusivo. Persone che non mettevano mai piede al villaggio e rimanevano chiuse nella loro meravigliosa torre d’avorio. Però anche il resort avrebbe tratto vantaggio se l’intera spiaggia fosse stata pulita, abbiamo pensato. E disponeva di mezzi, tra cui un camion.
Finché non accade l’improbabile. Basta osare. Giovedì avremmo avuto a disposizione camion e autista. Il capo-villaggio ha indicato il luogo, rispettoso degli spiriti della foresta spinosa, lontanissimo dai Baobab sacri e totalmente disabitato. Facevamo fatica a capire se l’evento fosse o meno stato pubblicizzato in modo adeguato. Sapevamo che se n’era parlato anche in chiesa. Gli infermieri locali erano divertiti. Ma davvero i bianchi, i “vasa’” avrebbero raccolto l’immondizia del villaggio?
È iniziata con 10 stupidi “vasa’” che alle 13 in punto, muniti di sacchi neri e rastrello (uno solo) hanno iniziato a ripulire la via principale. Suscitando inizialmente tanti “salama” (il saluto locale) e molte risate. Nessun supporto. Poi al mercato di sono unite un paio di donne e, una volta rotto il ghiaccio, una fiumana di gente. Donne, giovani, bambini. Eravamo qualche decina in centro (beh, anche un villaggio ha un “centro”) e sicuramente più di cento in spiaggia. Un piccolo esercito di bambini, molti piccolissimi, che trascinavano pezzi di vecchie taniche riempite di schifezze. I sacchi neri sono finiti subito, ma sono spuntati dal nulla sacconi di riso vuoti, sacchi e contenitori di ogni genere, addirittura vecchie lenzuola da utilizzare come contenitori.
Una marea di gente raccoglieva plastica, pezzi di stoffa, vecchie reti, sandali abbandonati. Dopo tre ore ci hanno fatto presente (con molto riguardo e riverenza) che i fogli di quaderno che nessun locale toccava e solo noi raccoglievamo per migliorare il livello di pulizia, erano la loro carta igienica. La marea umana è arrivata fino alla fine della spiaggia. Gente sfatta dal caldo e dalla fatica, altri che andavano avanti, decine e decine di sacchi. Cumuli di ogni cosa. Tante, tantissime risate. Sembrava un grande gioco. Incredibilmente, nel totale caos organizzativo, il camion ha cominciato ad essere caricato e a fare la spola tra il villaggio e l’area desertica.
Una faticaccia per noi anzianotti, ma i malgasci erano distrutti allo stesso modo. La raccolta si è conclusa con una festa al “Dada”, l’unico locale del villaggio, dove a tutti sono state offerte sambusa ( triangoli di pasta ripieni di pesce). Alla miriade di bambini coca cola e aranciata e birra agli adulti. Un caos cosmico. Integrazione assoluta. Tornando a casa, trascinandoci a casa, abbiamo visto donne e uomini che raccoglievano rami, alghe e cose varie davanti alle loro capanne, ripulendo tutto. Potere dei messaggi non verbali… Un piccolo trionfo.
* Piermario Palattella è medico odontoiatra del Policlinico Umberto I di Roma: negli ultimi dieci anni è stato in Africa sei volte per offrire assistenza come volontario. Con lui anche Giuseppe Nardi, direttore di Anestesia dell’Ospedale Infermi di Rimini