BUENOS AIRES – Appena tre anni fa la “città da 15 minuti” era solo una teoria e nessuno credeva potesse essere davvero messa in pratica. Voleva ridare il tempo agli abitanti delle metropoli e così facendo sanare squilibri e fratture, iniziando da quella endemica fra centro e periferie. Proponeva di offrire servizi in ogni quartiere: scuole, uffici, negozi, ristoranti, ospedali. Tutto avrebbe dovuto essere a portata di mano, in massimo un quarto d’ora a piedi o bicicletta, finendola così con i ghetti delle aree dormitorio, con il far sprecare centinaia di ore nel traffico ogni anno alle persone, con la concentrazione della scelta e della ricchezza solo nelle zone centrali. Soprattutto puntava a ridurre le emissioni di gas serra grazie ad una quotidianità nella quale l’uso della macchina diventa raro. Un’utopia, o qualcosa che le somigliava molto.
Oggi invece quell’idea comincia ad essere una realtà, anzi un movimento globale. È una bandiera per quelle metropoli che si stanno muovendo sul fronte dell’innovazione e della lotta al cambiamento climatico. La sua incoronazione ufficiale è avvenuta a fine ottobre in Argentina, durante il C40 Summit, l’evento annuale del Cities Climate Leadership Group, una rete nata nel 2005 formata da 97 centri urbani del mondo. Nomi di peso come Londra, Parigi, Barcellona, Copenaghen, Stoccolma, Atene, Bogotá, Rio, Los Angeles, New York, Tokyo, Seul, Cape Town, Roma e Milano fra gli altri. Associazione nella quale non è semplice entrare ma è ancor più difficile restare se non si rispettano i parametri e se non si lavora per raggiungere gli obiettivi: trovare strumenti e soluzioni per abbattere le emissioni ed evitare che la temperatura nel mondo superi il grado e mezzo. E, più in generale, cambiare le metropoli per avere una società equa e sostenibile. Di qui l’adozione della città da 15 minuti come uno dei pilastri dell’associazione.
Parigi, la capitale dei quartieri
“Ricordo quando ci siamo incontrati a Parigi e mi raccontasti di questa idea: fare della tua città una metropoli dove tutti i cittadini in qualsiasi quartiere avrebbero avuto accesso a ogni servizio a piedi o in bicicletta. Ebbene, oggi annuncio che faremo lo stesso anche qui a Buenos Aires”. Il sindaco della capitale argentina, Horacio Rodríguez Larreta, ringrazia così la sua collega Anne Hidalgo, a capo del Comune di Parigi, seduta davanti a lui assieme a tanti altri sindaci arrivati da tutto il mondo. Hidalgo è stata la prima ad adottare questa formula nella campagna elettorale del 2019 che l’ha riconfermata alla guida di un’area metropolitana da 12 milioni di abitanti dove le tensioni sociali esplodono spesso.
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Classe 1959, andalusa di nascita ma francese di adozione, ha intuito che la visione messa a punto dall’urbanista franco-colombiano Carlos Moreno, professore all’Università Panthéon Sorbonne, poteva fare la differenza. “Le metropoli sono responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra ma sono anche parte della soluzione” racconta lei stessa. “Una chiave è renderle più a misura delle persone e per farlo siamo partiti dalla scuola. Che si abbiano figli o meno poco importa, è quella che detta il ritmo: alla sua apertura la mattina è legata l’apertura di uffici e negozi. Con lei la città si mette in moto. L’abbiamo trasformata nella capitale dei quartieri, in un modulo che ne ha una ogni trecento metri circa, dagli asili nido ai licei. Per prima cosa le abbiamo rese sicure, pedonalizzando la via sulla quale affacciano. Questo attrae esercizi commerciali in quelle strade, aumentando l’appetibilità dell’area anche per gli uffici. E più si trasferiscono attività nelle singole zone, meno è necessario usare la macchina. Si riducono le emissioni, si spreca meno tempo negli spostamenti, si risparmiano soldi, si alza la qualità della vita”.
I super blocchi pedonali di Barcellona
La Barcellona di Ada Colau ha invece adottato un modulo diverso chiamato “super blocco”, o “superblock” in inglese, il primo dei quali è stato El Born, nel centro storico. Sono zone di quattrocento metri di lato all’interno delle quali possono accedere solo i veicoli dei residenti e vige il limite di dieci chilometri orari, oltre ad avere alcune vie pedonali. Dei mini quartieri circondati da strade con una percorrenza più alta e dotati di servizi. Secondo la sindaca catalana sono i tasselli di una città nuova che passa per la creazione di spazi verdi, che a Barcellona sono stati raddoppiati con un abbattimento del 24% delle emissioni, ottenuto grazie all’aumento delle piste ciclabili, aree pedonali e potenziamento del trasporto pubblico per dare modo a chi si deve spostare fra un blocco e l’altro di farlo evitando l’uso dei veicoli privati. Un modello che ora Berlino ha importato in forma mitigata nella zona di Bergmannkiez.
All’interno della rete C40 sono circa venti le metropoli che stanno sperimentando in varie forme la città da 15 minuti. Fra le altre Portland negli Stati Uniti, Melbourne in Australia, Busan in Sud Corea, Singapore, Milano con le sue “piazzette tattiche” e presto Roma.
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Di questa idea si cominciò a parlare molto per la scelta fatta da Parigi e per un Ted Talk di Moreno del 10 ottobre del 2020. Poco dopo, il professore franco-colombiano ha pubblicato un articolo sul tema intitolato Introducing the “15-Minute City”: Sustainability, Resilience and Place Identity in Future Post-Pandemic Cities. Moreno ha tratto ispirazione dal lavoro di Jane Jacobs, antropologa americana che nei primissimi anni Sessanta diede alle stampe il saggio Vita e morte delle grandi città, dove alla pianificazione urbanistica dall’alto proponeva la verifica di come le città funzionano nella vita reale. Un altro punto di riferimento è il sociologo francese François Ascher che, assieme al geografo urbano Luc Gwiazdzinski, ha lavorato sul “crono-urbanismo” e i ritmi delle metropoli. Era quindi da tempo che da più parti si sosteneva che nelle metropoli c’è qualcosa di profondamente sbagliato.
L’urbanista Luca D’Acci, ad esempio, nato a Torino nel 1975 e che insegna fra Birmingham e Amsterdam, aveva lanciato il progetto di una città differente nel 2010 chiamata “isobenefit urbanism” (foto in alto). Un nome decisamente poco seducente, dietro il quale c’era però la stessa intuizione: portare in tutte le aree i medesimi benefici, o meglio i medesimi servizi, raggiungibili nell’arco di pochi minuti. Quando lo presentò ad un convegno a Vienna gli diedero del comunista. Allora certe idee per trasformare i centri urbani, la cui struttura veniva giudicata inevitabile, venivano accolte con scetticismo.
La lezione del lockdown
Le cose sono cambiate durante l’emergenza sanitaria. La scrittrice Annie Dillard, Premio Pulitzer per la saggistica nel 1975, in Una vita a scrivere sostenne che il come trascorriamo le nostre giornate è il come trascorriamo la vita. Quello che facciamo durante l’ora che sta passando, quella precedente e la successiva, è ciò che stiamo facendo dell’esistenza e quindi alla fine ciò che siamo. I ritmi giornalieri rappresenterebbero un programma che a sua volta diventa il vero modello di riferimento, l’ordine delle cose. Un ordine che la maggior parte di noi non ha propriamente scelto, ci si è semplicemente trovato. La formulazione di Moreno scelta da Hidalgo in campagna elettorale era in perfetta sintonia con la voglia di revisione profonda di valori e priorità che si stava diffondendo fra i cittadini a seguito di quella gigantesca pausa di riflessione imposta dai lockdown. Iniziando dall’uso diverso del tempo, quello che tutti noi abbiamo sacrificato per anni costretti, a torto o a ragione, a recarci sul posto di lavoro passando ore nel traffico, a portare i figli in scuole lontane, a dover andare in un centro commerciale a fare la spesa o in una multisala che dista mezz’ora da casa per vedere un film. È stata una reazione a catena: partendo dal guardare la propria quotidianità del passato, con i sui sacrifici inutili, le frustrazioni sul posto di lavoro dovute al controllo a vista operato dal solito capoufficio inadeguato, il rimorso per non stare abbastanza con i figli, si è cominciato a pensare a nuovi equilibri che prima sarebbero sembrati delle fantasie irrealizzabili.
Moreno, in quel Ted Talk del 2020, esordiva dicendo che “per troppo tempo quelli di noi che vivono in città, grandi e piccole, hanno accettato l’inaccettabile. Accettiamo che le città deformino il nostro senso del tempo perché dobbiamo sprecarne così tanto solo per adattarci all’assurda organizzazione e alle lunghe distanze della maggior parte delle metropoli odierne. Perché siamo noi a doverci adattare, abbassando la nostra potenziale qualità di vita? Perché invece non è la città a rispondere ai nostri bisogni? Perché abbiamo lasciato che le città si sviluppassero così a lungo nella direzione sbagliata?”.
Dall’Europa al mondo
Questo movimento è nato in Europa quindi, dove alcune città si stavano muovendo nella stessa direzione. Copenaghen ad esempio può vantare abbattimenti delle emissioni dell’80% in dieci anni. La sindaca Sophie Hæstorp Andersen, è del 1974, ha spiegato come la sua città è riuscita a fare tanto: “Con una visione a lungo termine e le giuste strategie, è possibile cambiare”. Altrove però il voler cambiare il ritmo urbano ha un sapore diverso, legato solo in parte all’abbattimento delle emissioni.
Bogotà, i diritti e il tempo
Prendete i Barrios Vitales di Bogotá. Sono un tentativo dichiarato di liberare le persone da un’esistenza grama, secondo le intenzioni della sindaca Claudia López Hernández. Giornalista, ex consulente delle Nazioni Unite, membro del partito Alianza Verde e con alle spalle un master in amministrazione pubblica conseguito alla Columbia University di New York, a 51 anni non è solo la prima donna eletta a guidare la capitale della Colombia, ma è anche apertamente lesbica in un Paese altrettanto apertamente machista e fortemente squilibrato nella distribuzione del reddito.
“Un terzo dei lavoratori in Colombia non ha un contratto di lavoro né assistenza”, sottolinea. “E in un’economia del genere fatta di sommerso e dove i diritti non vengono riconosciuti, a pagare di più sono le donne, specie quelle che vivono nelle periferie povere. Avere servizi e infrastrutture ovunque, raggiungibili al massimo in 15 minuti, dalla scuola ai centri sporti e culturali, dagli ospedali ai negozi, vuol dire sollevarle dal doversi occupare costantemente dei figli e della casa. Vuol dire dare loro il tempo. Quello per completare gli studi, per divertirsi, per acquisire gli strumenti giusti per migliorare la propria condizione economica, per non dover continuare a dipendere da un uomo. Tutto questo è per noi la città da 15 minuti”.
Los Angeles e il trasporto pubblico
Nel Nord America, a Los Angeles, la più estesa in assoluto fra le metropoli del C40, l’idea di Moreno sta prendendo un’altra sfumatura ancora. Nella città delle macchine per eccellenza, 13 milioni gli abitanti sparsi su 12 mila chilometri quadrati, attraversata da autostrade e invasa dal traffico, il sindaco uscente Eric Garcetti ha iniziato a trasformarne il codice genetico. Lontane origini italiane, 51 anni, salito in carica nel 2013 quando ne aveva 42, ha già fatto fiorire il vecchio centro, Downtown. Dopo lo splendore durato fino agli anni Cinquanta e Sessanta, era entrato in una decadenza profonda dalla quale non sembrava esserci possibilità di ripresa. Garcetti nel corso del suo secondo mandato ha puntato molto sul trasporto pubblico con un piano di investimenti che non ha eguali negli Stati Uniti. Ironia della sorte, Los Angeles un tempo aveva il miglior sistema di trasporto pubblico degli States. Ben quindici nuove linee della metropolitana, sfruttando i fondi per le Olimpiadi del 2028. Non solo: il progetto è di rendere la rete gratuita e accessibile a tutti. Dopo i decenni passati a distribuire gli uffici da una parte, le case da un’altra, i ristoranti in un’altra zona ancora, ora si sta pensando ad una città, o forse una serie di città unite fra loro, più integrate. Per Garcetti, che lascia la carica questo mese dopo dieci anni a Karen Bass, di fatto il piano per Los Angeles 2028 è una sorta di eredità politica.
“Quel che stanno facendo le città è encomiabile ma non basta”. Sir David King, accademico originario del Sudafrica ma britannico di passaporto, nato nel 1939, lo ha ricordato a Buenos Aires raffreddando gli animi. A capo del comitato scientifico del governo inglese quando a Downing Street c’era Tony Blair, per conto del suo governo è stato uno degli artefici degli Accordi di Parigi del 2015, quelli che stabilirono come obiettivo l’evitare l’innalzamento delle temperature oltre il grado e mezzo abbattendo le emissioni di gas serra. Traguardo che sembra non più così a portata di mano. “Siamo in ritardo, abbiamo perso troppo tempo – spiega – le soluzioni proposte dal C40 vanno bene, ma devono essere appoggiate dai governi e vanno messe in campo subito”.
Le metropoli e l’ambiente: Addis Abeba
Le metropoli occupano il 2% della superficie terrestre ma ospitano più di metà della popolazione, assorbendo oltre il 70% della produzione di energia ed emettendo circa l’80% dei gas serra. Parte del problema, come diceva Anne Hidalgo all’inizio, ma anche la base per tante soluzioni possibili, una delle quali è la città da 15 minuti. Non è l’unica pratica messa in campo. Fra le altre si insiste molto sulle enormi potenzialità dell’economia circolare, campo nel quale quest’anno ha ricevuto un riconoscimento Addis Abeba e la sua sindaca Adanech Abiebie, ennesima donna di una rivoluzione che ha una componente femminile in netta maggioranza. Ma c’è anche il costante e generale scambio di idee fra i 97 centri urbani della rete C40: tecnologie, formule, saperi, regolamentazioni, dati. Atteggiamento mostrato con una certa fierezza, in contrapposizione all’immobilismo dei governi centrali, come ha fatto notare Sadiq Khan, sindaco di Londra e presidente di turno della lega delle città.
“Non lasciare mai che una buona crisi vada sprecata”, ha detto a conclusione del suo intervento. Una frase ad effetto attribuita a Winston Churchill. L’avrebbe pronunciata a metà degli anni Quaranta, mentre il mondo si avvicinava alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il riferimento era a Yalta e all’alleanza nata tra lui, Stalin e Roosevelt, un trio inimmaginabile fino a poco prima e che invece avrebbe poi portato alla formazione delle Nazioni Unite. In realtà non ci sono prove che Churchill abbia davvero pronunciato quelle parole. Rahm Emanuel, consigliere del presidente Obama e poi sindaco di Chicago, citò l’aforisma durante la recessione del 2008 e da allora ritorna periodicamente. Vero o meno che sia, funziona: a fronte delle tante difficoltà che dobbiamo affrontare, ci sono anche i segni di una possibile rinascita. O almeno è questo che pensano al C40.
Carlos Moreno: “Il mio modello valido per tutti i centri urbani”
Intervista all’urbanista che ha “inventato” le città da 15 minuti
“Da ingegnere informatico a stella dell’urbanistica. Carlos Moreno, l’uomo della “città da 15 minuti”, di vite ne aveva già vissute diverse prima di diventare celebre. Nato nel 1959 a Tunja, cittadina colombiana sulle Ande, nella Parigi che oggi lo porta in palmo di mano, è arrivato da rifugiato politico a 20 anni. Specializzatosi in robotica industriale, e ottenuta la cittadinanza francese, ha lavorato nella ricerca e nell’accademia occupandosi di androidi e algoritmi fino al 2010. All’urbanistica quindi è giunto per vie traverse. La prova vivente che le cose migliori a volte nascono quando si mettono in contatto materie di studio e competenze diverse. “È difficile dire quante metropoli stanno aderendo al modello della città da 15 minuti. Continuano ad arrivare richieste da tutto il mondo”. Lo racconta trafelato lo stesso Moreo quando lo incontriamo a Buenos Aires. “Il mio lavoro è open source, chiunque può applicarlo”.
Lei lavora a questo progetto da più di dieci anni. Perché è diventato così popolare ora?
“Sono un ricercatore, il mio lavoro è proporre nuovi paradigmi e ovviamente non tutti ottengono la medesima eco. Nel caso della città da 15 minuti il processo è stato lungo. Sviluppavo tecnologie e soluzioni, alcune delle quali pensate per le smart city. La prima versione, una metropoli intelligente e sostenibile, la proposi nel 2006. Quando però nel 2010 nacque il grande fermento attorno alla smart city, pensai fosse un errore credere che da sole le tecnologie avrebbero risolto problemi come l’impatto ambientale, le disparità sociali, l’assenza di inclusione. Il nucleo originario della città da 15 minuti è una formulazione in chiave umana della smart city. Nel 2016 è nato ufficialmente il modello”.
Che però suonava come una utopia.
“Già. Poco prima, alla Cop21 del 2015 a Parigi, piacque molto la prospettiva di ridurre gli spostamenti, ma sembrava impossibile da realizzare. Continuai a lavorarci e mettemmo a punto tre progetti pilota in tre quartieri di Parigi che poi ho sottoposto alla sindaca Hidalgo. Nel novembre del 2018, pochi mesi prima dell’inizio della campagna elettorale, mi ha chiamato dicendomi che la mia idea le piaceva. A gennaio del 2019 tenemmo una conferenza stampa assieme per la presentazione ufficiale. Stava scoppiando la pandemia e la città da 15 minuti divenne una possibilità di cambiamento e di rinascita per non sacrificare più il tempo e la vita adattandosi a modelli sbagliati invece di avere una città che si adatta ai nostri bisogni. Il gruppo dirigente di C40 mi chiamò subito dopo abbracciando il concetto. Specialmente Giuseppe Sala a Milano”.
Ci sono diversi modi di applicare il suo modello. L’originale però è quello parigino?
“Ada Colau a Barcellona ha scelto la strada dei superblocchi partendo dall’idea di aree chiuse al traffico esterno, con all’interno zone pedonali e spazi verdi. All’origine della città di 15 minuti però non ci sono le infrastrutture ma i servizi. La differenza la fa il numero di scuole, dottori, negozi, stazioni del metrò, ristoranti, uffici, cinema e via discorrendo”.
Non teme che il cinismo della politica, spesso mascherato da realismo, possano svilire il modello?
“Il punto non sono i 15 minuti. La vera questione è come trasformare la quotidianità urbana per cambiare radicalmente. I modelli attuali sono insostenibili sul piano umano, sociale, ambientale. Perdere una o due ore per andare e tornare dell’ufficio non ha davvero alcun senso. O dover prendere la macchina per recarsi a fare la spesa. La buona notizia è che con la pandemia abbiamo capito che molte cose che sembravano impossibili sono invece a portata. Le nuove generazioni, e non solo loro, queste cose le vedono. Non a caso tanti preferiscono dimettersi dal posto di lavoro piuttosto che dover accettare la quotidianità di prima. Poco importa quindi se poi qualcuno applica male il mio modello o lo usa solo come una facciata, perché non credo si possa più tornare indietro”.