Ora che le foto drammatiche del Po in secca sono sotto gli occhi di tutti, la domanda su quali sono le risorse idriche nel nostro Paese e come le stiamo gestendo è tornata d’attualità. C’è però chi come Erasmo D’Angelis, oggi segretario generale dell’Autorità di bacino dell’Italia Centrale ed ex sottosegretario del governo Letta con delega anche alle dighe e infrastrutture idriche, da tempo ha avuto il ruolo di Cassandra nel descrivere la situazione paradossale dell’Italia “ricchissima di acqua e poverissima di infrastrutture”.
Il suo libro Acque d’Italia (Giunti) è appunto una summa sulle risorse idriche del Paese, con statistiche, eventi storici, trend, analisi, impatti e proiezioni meteo-climatiche che indicano come il bene più prezioso sia da noi scarsamente tutelato, con effetti gravissimi in periodi siccitosi come quello attuale.
D’Angelis, partiamo dalla stretta attualità: la siccità che stiamo sperimentando è un evento straordinario?
“Non direi. In questo momento stiamo vivendo l’annata forse meno calda dei prossimi anni, perché ormai da tempo la modellistica climatica mostra un aumento tra i 2 e i 4 gradi centigradi delle temperature in Italia. Sono anni che noi descriviamo gli impatti del clima sulla nostra penisola, un territorio che è come un pontile lanciato nel Mediterraneo, con tutte le problematiche che ne conseguono. Dagli anni Ottanta è mutata la distribuzione delle piogge, per cui i periodi di siccità sono progressivamente aumentati da 40 a circa 150 giorni all’anno, in particolare con una diminuzione della pioggia estiva che, ci dicono i modelli climatici, potrebbe ridursi ancora del 30%. Il punto di svolta di quest’anno è che non la sperimenta soltanto il Sud, dove ormai aveva creato una situazione endemica, ora le aree più colpite sono Nord, Nord Est e Centro, con i grandi fiumi in evidente secca. In pratica, la desertificazione e il cuneo salino, cioè il fenomeno per cui quando nella falda costiera c’è scarsa portata l’acqua del mare risale verso l’entroterra con intrusione marina o cuneo salino attraverso il sottosuolo e la rende salmastra, eventi ormai comuni al Sud, ora interessano aree del litorale laziale, della Maremma toscana e del Nord Adriatico. Insomma, anche chi ha un orto annaffia con acqua salmastra, perché il pompaggio dalle falde favorisce la penetrazione di acqua dal mare. Ripeto, in molte zone si tratta però di un fenomeno con cui l’agricoltura fa i conti da tempo”.
In questo contesto, quanto incide la gestione corretta delle risorse idriche?
“Qui servono un po’ di numeri. I nostri fiumi hanno tutti carattere particolare: siamo il Paese europeo più ricco di acqua ma più povero di infrastrutture. Da noi la media di piogge è di 302miliardi di metri cubi anno, con variazioni a seconda di annate più siccitose, ma si tratta di una media superiore a quella dell’Inghilterra, per cui a Roma piove più che a Londra. Certo, bisogna poi considerare come piove, perché un temporale che scarica diversi metri cubi d’acqua in pochi minuti ha diverso impatto da una pioggerella sottile e continua. In ogni caso, da noi le piogge alimentano 7494 corsi d’acqua. Il punto vero è che i nostri corsi d’acqua hanno carattere torrentizio, mentre i fiumi del Nord Europa scorrono per chilometri con portate ampie. Così, quando non piove i nostri corsi d’acqua sono ridotti a rigagnoli e tanti torrenti non si vedono più, mentre bastano tre giorni di pioggia e il Tevere si ingrossa”.
E come convogliamo in riserve quest’acqua?
“Ancora qualche numero: abbiamo 1053 falde montane di acqua dolce per cui, per esempio chi come Roma beve le grandi sorgenti del Monte Nuria è messo meglio, ma chi utilizza gli acquedotti fluviali è nei guai. C’è chi si salva come Firenze, con la diga di Bilancino sul fiume Sieve, ma appunto, abbiamo 347 laghi, circa 19mila laghetti e 526 grandi dighe, cioè abbiamo potenziali risorse d’acqua ma non le infrastrutture per convogliarle”.
Emergenza siccità: il volo del drone sopra l’affluente del Po completamente prosciugato
Possibile che con tutti gli allarmi lanciati dagli scienziati sul clima non si sia ripensata la gestione delle risorse idriche?
“Le nostre infrastrutture di stoccaggio sono in gran parte realizzate dall’800, le ultime dighe risalgono agli anni Sessanta, quando è stato fatto l’ultimo Sistema acque nazionale. Non viene fatta manutenzione, così le dighe si interrano e mentre nel 1971 si immagazzinava il 14% di tutta l’acqua di pioggia, oggi la percentuale è dell’11,3%. Non è più stato fatto nulla, l’acqua è uscita dal bilancio dello Stato, come dalle Regioni, perché dopo la legge Galli del 1994 la gestione di 600mila km di rete idrica per acqua potabile nelle nostre case è stata affidata a tariffa. Poiché abbiamo le tariffe idriche più basse d’Europa, si risparmia sull’ammodernamento e sulla manutenzione, così abbiamo anche la maggiore percentuale di perdita, il 42% certificato dall’autorità, con alcuni picchi drammatici al Sud, dove immetti due litri d’acqua nelle reti per averne meno di uno, con uno spreco incredibile anche di energia. È un problema di cui non si è fatto carico nessuno”.
Con il Pnrr ci sono finanziamenti previsti?
“Ridicoli: all’acqua è stato dato tra l’1 e il 2% dei fondi. Va bene aumentare e riparare le reti stradali e digitali, ma la rete dell’acqua è fondamentale. Ora, poi, siamo tutti preoccupati per l’emergenza, ma succederà come accade con il rischio idrogeologico: subito dopo una tragedia se ne parla, poi passata la crisi non si lavora per la prevenzione. In più, il susseguirsi di governi non ha mai aiutato la progettazione, mentre l’acqua è una risorsa pubblica e ha bisogno di una ampia programmazione pubblica. Il federalismo all’italiana ha distrutto un gioiello che ci invidiavano in tutta Europa come l’Istituto idrografico e mareografico dello Stato, capace di vigilare su tutti gli istituti, mentre ora tutto è parcellizzato e delegato alle Regioni”.
Un quadro a tinte fosche. Nessuno spazio per l’ottimismo?
“No, se non si interviene subito, come per altro ci obbligherà a fare l’Ue, perché dal 26 giugno 2023 scatterranno le nuove regole per il riutilizzo delle acque reflue rispetto alle quali siamo totalmente inadempienti. Siamo un Paese nel quale il 20% dei prelievi di acque è destinato all’uso domestico, il 25% al settore industriale e il resto all’agricoltura. Siamo gli unici a lavare le strade, annaffiare i giardini e pulire i macchinari con l’acqua potabile. Per di più, in agricoltura gli sprechi sono enormi perché non c’è innovazione, si usano ancora i grandi irrigatori a spruzzo. Insomma, serve un cambio di mentalità radicale, un salto di qualità strategico, oppure le conseguenze del cambio climatico saranno da noi ancora più devastanti”.