Una bomba inesplosa dorme sotto il permafrost Artico. Ce l’abbiamo sepolta noi, naturalmente: è il risultato di decenni di operazioni minerarie, trivellazioni alla ricerca di petrolio e gas, costruzioni di basi militari e industriali. Ed è fatta di materiali radioattivi, metalli pesanti, insetticidi, combustibili e veleni vari: la classica spazzatura nascosta sotto al tappeto, insomma. Ma purtroppo il tappeto sta per essere alzato, perché il riscaldamento globale sta disgelando rapidamente il permafrost, dissotterrando così tutto ciò che ci abbiamo nascosto. Uno studio appena pubblicato su Nature Communications ha svelato le proporzioni del problema: secondo gli autori del lavoro, esperti della Permafrost Research Section all’Alfred Wegener Institute Helmholtz Centre for Polar and Marine Research di Potsdam e di altri istituti di ricerca, il permafrost artico ospiterebbe tra 13mila e 20mila siti contaminati, e quasi 5mila di essi saranno soggetti a disgelo entro la fine del secolo. Una stima che potrebbe addirittura essere al ribasso, dal momento che l’Artico si sta riscaldando quattro volte più velocemente del resto del pianeta e il disgelo potrebbe ulteriormente accelerare.

“Il presupposto, per lungo tempo, è stato che il permafrost fosse una barriera idrogeologica destinata a rimanere per sempre così com’era”, ha spiegato Moritz Langer, esperto dell’Alfred Wegener Institute e della Vrije Universiteit Amsterdam e primo autore del lavoro. “Ed è durato per tutti gli anni Settanta, Ottanta e parte dei Novanta, un periodo in cui il riscaldamento globale e il problema del disgelo del permafrost non erano ancora così studiati”. Oggi sappiamo che non è così, ma potrebbe già essere troppo tardi (come ci avrebbe dovuto insegnare il disastro di Norilsk): stando allo studio di Langer e colleghi, il 70% dei siti contaminati si trova in Russia, e la maggior parte dei rimanenti in Alaska, Canada e Groenlandia; alcuni di essi sono afferenti a strutture ancora operative (e dunque ancora inquinanti), e molti sono di difficile accesso (e dunque di difficile bonifica).

Quando il permafrost si scioglie, i contaminanti si sversano nei fiumi e nei laghi, compromettendo la salute degli ecosistemi locali e, in alcuni casi, anche le sorgenti di acqua potabile – il che “rappresenterà uno scenario molto pericoloso per le persone che vivono nell’estremo nord”, aggiunge Langer – e infine finiscono nell’oceano, arrivando praticamente ovunque. “Il nostro studio mostra che incidenti come quello di Norilsk potrebbero essere sempre più frequenti”, dice ancora l’esperto, “ed è assolutamente necessario studiare il fenomeno più in dettaglio, per comprendere qual è la reale portate del rischio. Finché non avremo a disposizione dati più estensivi, la nostra scoperta dovrebbe essere considerata una stima piuttosto ‘conservativa’: la scala reale del problema potrebbe essere molto più grande”.