C’è un libro, Il mare colore veleno (Fazi Editore, 18 euro) scritto dal giornalista Fabio Lo Verso, che spiega perché la sentenza 105 della Corte Costituzionale con riguardo al “Decreto Priolo” può davvero rappresentare una svolta nel modo in cui l’Italia guarda alle industrie inquinanti, cambiando la tendenza ad anteporre i posti di lavoro alla salute delle persone e dell’ambiente. Lo Verso, siciliano di origine ma ormai cittadino svizzero, ha raccolto le testimonianze di attivisti, ex operai, sindaci, politici, procuratori, esponenti della comunità scientifica e difensori dell’industria, ma anche gente comune, famiglie colpite da gravissimi lutti, per raccontare “il quadrilatero della morte” del più grande polo petrolchimico d’Italia, quel polo che il governo Meloni ha cercato di sollevare dalle responsabilità ambientali in nome “dei settori produttivi strategici”.
Lo Verso, davvero questa sentenza può cambiare qualcosa?
“Plaudo a giudici che si sono fatti carico con testardaggine di una lotta e di un’emergenza che in tanti ignorano. La Corte ha riconosciuto che bisogna ribaltare un modo di vedere il lavoro. Finalmente, salute e ambiente sono state ritenute più importanti delle ragioni economiche. C’è stato un precedente con la sentenza sull’Ilva, ma l’importanza di questo atto è anche di portare l’attenzione su Priolo, una catastrofe di cui non si parlerà mai abbastanza”.
La sentenza sostenibile
di Riccardo Luna
Come spiegherebbe a chi non conosce il polo industriale siciliano perché viene indicato come “il quadrilatero della morte”?
“Quando parlo del mio libro inizio da due dati di fatto documentati. Il primo, che serve a inquadrare il disastro ambientale, è che la massa di sostanze tossiche sversate solo nella rada di Augusta ha formato un impasto demenziale con cui, se fosse calcestruzzo, si farebbero 3mila palazzi di 6 piani. Ed è un dato minimo, perché alcuni studi fanno stime maggiori. Il secondo descrive bene i danni derivati alla salute dei cittadini, perché nel 2019 è stato accertato che la possibilità di sviluppare un tumore in conseguenza dell’inquinamento delle zona è la stessa sia per chi lavora nelle fabbriche del polo, sia per chi vive nella zona. Sono questi gli effetti del più grande polo petrolchimico d’Italia, il secondo in Europa, un Moloch che produce il 37% del PIL della regione con tre impianti di raffinazione petrolifera, due stabilimenti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio, due fabbriche di gas industriale e decine di aziende dell’indotto”.
Qual è stata la sua reazione quando ha iniziato a mettere insieme questi dati?
“Ho provato un senso di vertigine e non lo dico in senso metaforico, è stata una sensazione precisa e non dipende dal fatto che, pur essendo siciliano di origine, vivo da 36 anni in Svizzera e posso essermi un po’ allontanato da un certo modo di vedere le cose italiano. La stessa sensazione mi è stata riferita dai lettori che mi hanno contattato in seguito al libro, quasi l’enormità di questa catastrofe ambientale e sanitaria non si potesse sopportare razionalmente. E certo, poi si prova una grande rabbia e un senso di impotenza di fronte a questo gigantesco disastro ambientale”.
È almeno dagli anni ’90 che si lanciano allarmi sul disastro ambientale di Priolo. Come spiega questa inazione?
“Il ricatto del lavoro è stato una costante e va detto che, prima della costruzione delle industrie, la gente moriva davvero di fame e per un lungo periodo intere famiglie si sono sentite al sicuro economicamente perché il lavoro del padre veniva poi passato al figlio. Il quadro, tuttavia, è più complesso, c’è un intreccio di motivi e considerazioni antropologiche che spesso in Sicilia portano a una specie di narcosi generale”.
Per questro il libro lo ha scritto lei, che non vive in Sicilia e nemmeno in Italia?
“Il mio libro è in qualche modo anche autobiografico, mio padre ripeteva spesso che era meglio lavorare poco a Palermo che spaccarsi la schiena per 12 ore al giorno nelle dannatissime fabbriche di petrolio di Siracusa. Per me da ragazzino il polo si è configurato come una sorta di inferno e un inferno ho trovato quando ho cominciato a volerlo scoprire per fare delle inchieste da pubblicare su giornali. Mi sono reso conto però che non esisteva una visione d’insieme di questo girone dantesco in cui da cinquant’anni la popolazione convive con veleni industriali di ogni tipo, che hanno contaminato il mare, la terra, l’aria e le falde acquifere. Da qui è nato il libro ed è probabile che sia stato più facile per me scriverlo, poiché non vivo in Sicilia, non ho parenti lì e nessuno può farmi pressioni”.
Ci sono parti del suo libro in cui perfino lei sembra far fatica a raccontare quel che ha visto e sentito.
“Ho scelto una vena ironica come espediente narrativo, perché l’ironia è una lente preziosa che ti permette di non accecarti di fronte alla situazione più assurda d’Italia. Non ci sono studi comparativi con altri siti fortemente inquinanti, come ad esempio Marghera, ma di fatto, se si calcolano tempi di inquinamento e quantità, il polo industriale di Priolo è il posto più inquinato d’Italia”.
In questo disastro di proporzioni apocalittiche, c’è ancora qualcosa che continua a stupirla?
“Lo scandalo immane del depuratore Ias gestito dalla Regione, che dovrebbe smaltire i reflui industriali e quelli urbani di Priolo e Melilli, appunto tornato di attualità con la sentenza della Corte. Il depuratore dal 2022 è sotto sequestro, ma di fatto non ha mai depurato nulla. Che ora si possa determinare una temporalità, una specie di licenza di inquinare fino a un certo punto mi sembra davvero incomprensibile. Oggi che la consapevolezza è maggiore, che si conoscono leggi e norme a tutela dell’ambiente e della salute, mi sembra assurdo: davvero entriamo in un girone dantesco”.