Eiste un’antica fiaba cinese, in cui si narra di un viandante che cercò rifugio in un castello sconosciuto. Ad accoglierlo fu una ragazza, figlia del Signore delle Piogge. “E dov’è adesso tuo padre?” le chiese il giovane, sentendosi rispondere che il grande mago era altrove, e aveva lasciato nel maniero il suo otre pieno d’acqua piovana, quello da cui riversava le piogge volando fra le nubi. L’occasione sembrò al viandante più che mai propizia, dandosi il caso che nelle sue terre i contadini lamentavano da tempo una devastante siccità. Rubò l’otre, salì in alto come faceva il padrone di casa, e da lassù sparse benedetta acqua nella remota contrada da cui proveniva. Peccato che fosse un dilettante, e l’effetto non si fece attendere: inondazioni senza precedenti sconvolsero quelle campagne, e i danni della terra secca furono rimpiazzati da quelli delle alluvioni. Ecco, chi stesse sorridendo forse non sa che la millenaria saggezza del Dragone ha trovato conferma un anno fa negli Emirati Arabi, quando con un finanziamento faraonico da fantascienza agricola si è deciso di far piovere sui dintorni di Dubai. In che modo? Semplicemente bombardando le nubi con droni che scatenassero scariche elettriche, da cui le precipitazioni. L’epilogo è stato identico a quello della fiaba, con Dubai che si è trovata a gestire ondate torrenziali e immani colate di fango.
L’episodio è paradigmatico dell’emergenza climatica in cui ci troviamo, proprio perché stigmatizza il madornale errore di prospettiva dell’antropocene. L’uomo regna, l’uomo dispone, l’uomo decide perfino se far piovere sul deserto. Ed è di questo dispotismo che raccogliamo i frutti. Da secoli l’essere umano si comporta come se il Pianeta fosse in suo comodato d’uso, bonariamente affidatogli dal Creatore che lo riconosceva come eccelso punto d’arrivo della Genesi. Cos’era in fondo la Terra? Un parco giochi per Sua Altezza l’Homo Sapiens. E che cos’erano flora e fauna? Una specie di grande cambusa, dai cui scaffali attingere materie prime e soprattutto cibo, senza limiti, senza prudenza, con la stessa razzia brada degli espropri proletari. Nessuno si è mai sentito in colpa per questo, nessuno mai si è posto domande, perché la religione incardinava come principio fondante il primato dell’uomo su ogni altra creatura, a lui implicitamente sottomessa. Si è dovuto aspettare il tardo ‘800 perché iniziasse davvero a prendere forma una timida consapevolezza ecologica, un minimo senso della sostenibilità, ma è ovvio che non si mutano facilmente schemi mentali radicati dal più profondo trapassato remoto. E il vero baluardo da abbattere è proprio la nostra folle pretesa di centralità, divenuta ancor più devastante quando lo sviluppo delle borghesie occidentali ha iniziato a concepire il globo intero come proprio ripostiglio: usiamo il gas estratto in Siberia, mangiamo il pesce dell’Oceano Indiano, giochiamo a calcio coi palloni cuciti in Vietnam, nei supermercati scandinavi vogliamo trovare papaja e avocado freschi, e viceversa a Città del Capo non deve mancare l’aringa affumicata di Oslo. È il benessere, che si misura in possibilità di avere l’impossibile.
E il costo di un tale benessere è uno stupro continuato del Pianeta, che procede a ritmo sempre più sostenuto dal momento che popolosissimi Stati emergenti reclamano adesso quello stesso ventaglio di comfort che hanno garantito ai padroni dell’altro ieri (e difatti sono i primi a opporsi con forza alle misure contro il global warming).
La miscela è esplosiva, gli effetti fuori controllo. Due miliardi di persone sono vittime di catastrofi climatiche, eppure c’è chi viene ucciso per aver tentato di porre rimedio, come è accaduto a Paulo Guajajara, freddato con un colpo di pistola, nel Maranhão amazzonico, da chi armato di motosega disbosca illegalmente la foresta al ritmo di ettari ed ettari al giorno. Serve ricordarne il sacrificio? No, è del tutto inutile. Anzi, si corre perfino il rischio di alimentare la distorta lettura dei fatti per cui l’Amazzonia riguarda i brasiliani, la Groenlandia i danesi e via dicendo in una lista di bandierine e di confini che ha fatto della geografia un catalogo di pertinenze, in onta alla salvaguardia complessiva del Pianeta. Si racconta che sessant’anni fa Jurij Gagarin, a bordo della sua navicella, contemplò la Terra nel suo apparirgli finalmente priva di confini. In piena Guerra Fredda (eravamo poco prima che scoppiasse la crisi dei missili cubani che stava per condurci alla guerra atomica), era rivoluzionario sentire un astronauta garantirci che il mondo è innanzitutto un pianeta, e solo poi una somma di sovranità. Niente da allora è mutato: continuiamo a non vedere il Pianeta, ma solo il mosaico colorato del planisfero politico.
Quindi del Maranhão si occupino Lula o Bolsonaro, è casa loro. E con lo stesso principio, siamo certo pronti a donare in beneficienza 1 o 2 euro via sms per l’emergenza in corso, ma nel contempo restiamo comunque convinti che ognuno debba conteggiare i propri danni e le proprie vittime. Tanto più che – in questa vulgata idiota e diffusissima – la mannaia del clima si abbatterebbe in particolare sugli Stati africani flagellati dalla siccità, sugli arcipelaghi oceanici in via di sommersione, sui paesi asiatici spazzati dai monsoni o sulle coste americane esposte agli uragani.
Ci spiace per loro, ma non sono fatti nostri. È un comodo modo di spostare altrove l’emergenza, fingendo di non vedere che ormai tutti – sarò netto nei toni – rischiamo di morire domattina in un’auto travolta da una bomba d’acqua o sotto un platano abbattuto da raffiche a oltre 100 km orari. Sarebbe l’ora che iniziassimo a prendere tutti il punto di vista di Gagarin, anteponendo il pianeta, dimenticando confini e capitali, azzerando per procedura d’urgenza ogni veto di premier, sovrani e presidenti (fra cui Trump che senza remora ha definito l’innalzamento degli oceani un’occasione per vendere più case con vista mare). Perché si possono comminare sanzioni pesantissime a chi invade l’Ucraina, ma non è mai stato usato lo stesso metodo estremo con chi non si allinea alle misure contro il surriscaldamento? Forse perché l’attacco all’integrità di una nazione è un reato più grave che alimentare la catastrofe ambientale? O forse perché una imperdonabile miopia fa mettere a fuoco i morti di una guerra ma non i morti che dopodomani immoleremo sull’altare del dio Clima? Nelle nostre case sono entrate le immagini di Mattia Luconi, trascinato via dalla furia di un fiume marchigiano. Molte altre immagini di bambini ci erano comparse sui teleschermi in questo 2022 di missili, razzi e macerie. Eppure Mattia non viene concepito come una vittima di guerra. Cominciamo a dire che viceversa lo è, a tutti gli effetti: strappato via a soli 8 anni da un temporale feroce alimentato da 4 mesi di caldo over-limits, Mattia è un caduto in guerra, nella grande guerra climatica. E il V-Shaped, nome tecnico del temporale autorigenerante, non è in fondo così diverso dallo Shahed-136, il drone iraniano con cui la Russia si accanisce su Kiev.
Stefano Massini
Nato a Firenze, nel 1975. Scrittore e drammaturgo, è il primo autore teatrale italiano ad aver vinto un Tony Award. Tra le sue opere recenti Manuale di sopravvivenza: Messaggi in bottiglia d’inizio millennio