Immaginiamo di fare il verso al Dottor Frankenstein del celebre film di Mel Brooks: “Si…può…fare!!!” è quello che ci dovrebbe venire voglia di urlare a gran voce dopo aver letto i risultati di uno studio internazionale appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Science. La ricerca, coordinata dalla biologa Penny F. Langhammer della Arizona State University, per la prima volta ha valutato l’effettivo impatto delle azioni pratiche di conservazione della biodiversità, esaminando quasi 1.500 articoli scientifici e analizzando in dettaglio circa duecento casi di studio in cui risultava possibile un confronto tra aree in cui erano stati realizzati interventi di salvaguardia o ripristino della biodiversità e aree in cui nessun intervento era stato realizzato.
Lo studio ha valutato l’efficacia nel contrastare le cause di deterioramento degli ecosistemi e delle specie animali e vegetali di sette tipologie di azioni di conservazione, tra cui l’istituzione di aree protette, il restauro di ambienti degradati, l’eradicazione di specie aliene invasive, la gestione di specie native problematiche o l’adattamento al cambiamento climatico. Le tipologie di intervento valutate sono state scelte tra quelle previste per raggiungere gli obiettivi internazionali adottati dai governi per interrompere il declino della biodiversità e invertire la tendenza, tra cui lo storico accordo di Kunming-Montreal, siglato a dicembre del 2022.
I risultati dello studio sono chiari: la conservazione funziona. Sia in termini assoluti (45% dei casi), migliorando palesemente la salute degli ecosistemi, come ad esempio in Scozia, dove una migliore gestione delle pratiche agricole ha aumentato il successo di nidificazione di molte specie di uccelli negli agro-ecosistemi, sia in termini relativi, rallentando il declino della biodiversità, come in Amazzonia, dove l’istituzione di aree protette e territori ad uso esclusivo degli indigeni ha rallentato il tasso di deforestazione. Soltanto in un caso su tre gli interventi non sono risultati in grado di migliorare la situazione, come avvenuto in Australia, dove l’istituzione di una area marina protetta ha avuto l’effetto di ridurre la popolazione di una specie endemica di cavalluccio marino a causa dell’aumento dei suoi predatori, protetti dalla pesca indiscriminata.
E quale tra le diverse tipologie di azione funziona meglio? Il ripristino degli habitat degradati, la gestione sostenibile degli ecosistemi e, soprattutto, l’eradicazione e il contenimento delle specie aliene invasive, in particolare sulle isole. Infatti, sebbene sia ormai dimostrato che le specie aliene invasive siano una minaccia per la biodiversità che colpisce tutte le regioni della terra, anche quelle più remote, è proprio sulle isole, dove si concentra una larga porzione della biodiversità globale, che l’introduzione di specie aliene da parte degli esseri umani sta mettendo a rischio gli ecosistemi. Questo nuovo studio internazionale è la prova definitiva a supporto dei tanti progetti di contrasto alle specie invasive animali e vegetali condotti in questi ultimi due decenni anche nelle nostre isole tirreniche; progetti spesso sottoposti alla gogna mediatica senza una reale comprensione della loro importanza. Lo studio di Langhammer e colleghi ci aiuta anche a capire perché un programma come quello intrapreso dal governo neozelandese, che entro il 2050 ha promesso di “liberare l’isola da ratti, opossum e altri predatori introdotti dall’uomo”, non sia velleitario e irrealizzabile ma, al contrario, il frutto della scelta oculata, seppur ambiziosa, di perseguire l’azione più efficace per contrastare la crisi di biodiversità del paese.
Nelle conclusioni dello studio, lo sguardo dei ricercatori si è spinto anche oltre i numeri e i grafici. Se le azioni di conservazione hanno indubbiamente contributo a rallentare il declino della biodiversità nelle aree di intervento, i risultati positivi si stemperano in una visione allargata, dove anche le azioni più efficaci non sono riuscite fin qui ad invertire la tendenza alla perdita globale di biodiversità. L’emorragia si può arrestare solo con un deciso cambio di passo o, meglio, di scala degli interventi. Scala geografica, che deve diventare globale, superando la consueta asimmetria verso i paesi più ricchi e indirizzando gli sforzi di conservazione verso i paesi a maggiore biodiversità. Scala economica, che deve aumentare almeno di un ordine di grandezza, passando dagli attuali 80 miliardi di dollari investiti annualmente in attività di conservazione ai 524 miliardi di dollari all’anno, ritenuti necessari dalle più recenti stime internazionali. Un passaggio, quest’ultimo, che, come suggeriscono gli autori, sarà possibile solo quando riusciremo a considerare le somme investite per la conservazione della biodiversità come un investimento in grado di moltiplicare il nostro capitale, e non come una spesa, il più delle volte ritenuta superflua dalla società.
I risultati di questo studio potrebbero diventare una vera e propria “bussola” per orientare i decisori politici e gli attori sociali ed economici, chiamati a quantificare e destinare le risorse necessarie a raggiungere gli obiettivi internazionali di conservazione della biodiversità. Non lasciamo la bussola nel cassetto.
Andrea Monaco è uno zoologo dell’ISPRA