Dieci anni fa era un fazzoletto di terra ereditato dai nonni. Ora è un laboratorio di permacultura che dà frutti e soddisfazioni a chi lo cura. “Il Bosco di Ogigia ha cambiato aspetto e negli ultimi due anni – racconta Francesca Della Giovampaola – le novità sono state tantissime. Trascorriamo sempre più tempo ad occuparci di lui e a raccontare le sue vicende. Non c’è stata solo l’esplosione della natura che ci ha sorpreso con super raccolti (l’estate scorsa siamo stati sommersi dalla frutta), ma anche la comunità di persone che ci seguono sui diversi canali è aumentata tantissimo. E poi Mondadori ci ha chiesto di scrivere un libro sulla storia del Bosco e ne è uscito “La cura della Terra” (in libreria da oggi).
Francesca ha portato il suo bosco su YouTube già qualche anno fa, assieme a Filippo Bellantoni “mio marito e socio in questa avventura” – un impegno a tempo pieno, spiega – ma se riceviamo tante attenzioni, credo dipenda anche dal momento di grande incertezza che stiamo vivendo. Prima la pandemia, poi la guerra, ma anche la siccità e l’allarme per le conseguenze del riscaldamento globale ci obbligano a sperimentare nuovi modelli di vita. Saper produrre il proprio cibo o organizzare sistemi per risparmiare energia sono temi che stanno raccogliendo sempre più interesse”.
Un laboratorio di riciclo permanente
“Nel Bosco di Ogigia sono arrivate nuove sperimentazioni di metodi di coltivazione. Come l’agricoltura sintropica, che mette insieme la riforestazione con la coltivazione di ortaggi, per affrontare anche i terreni più difficili, quelli ad un passo dalla desertificazione. Un metodo ideato dal ricercatore svizzero Ernst Götsch e messo in pratica per la prima volta in Brasile basato sul rispetto della successione ecologica delle specie. Altra sperimentazione è quella della Hugelkultur, la coltivazione su collina, una tecnica nata in Europa orientale che prevede di creare cumuli piuttosto alti di legname, materia organica varia e terra che diventano una miniere di nutrienti per le piante che vi vengono coltivate sopra. Stiamo allestendo anche lo spazio in modo da poter accogliere in futuro gruppi di visitatori, ma per questo ci vorrà ancora un po’ di tempo”.
Il suolo dimenticato e come occuparsene
In quasi tre anni la community @boscodiogigia è passata da 93mila a 143mila iscritti e il sapere condiviso online è stato in buona parte raccolto nel libro, con l’intenzione di trasmettere questa passione come una strada percorribile da tutti. “Si tratta del mio racconto personale di come è nato il Bosco di Ogigia e delle scoperte che ho fatto grazie a lui. Parlo soprattutto di suolo, di come si forma, di quanto è fragile e quanto prezioso. Provo a far riflettere su come siamo abituati a trattarlo, di quanto poco ci preoccupiamo delle sue condizioni, quando da esso dipende tutta la vita sulla crosta terrestre, umani compresa.”
“Racconto le esperienze pratiche che ho fatto per la produzione di cibo, nella speranza di far nascere in molte altre persone la voglia di prendersi cura della terra. Farlo richiede sicuramente impegno, ma i vantaggi sono grandissimi”, dice Francesca che sul web spiega come si fa la pacciamatura, cos’è il food forest, la potatura corretta di ulivi e vite o come usare la grelinette, uno strumento antico per lavorare la terra. Insomma, come rigenerare i nostri suoli e produrre cibo sano.
La comunità cresciuta attorno al Bosco di Ogigia ne fa parte grazie anche a guide gratuite per l’orto facile (con 240mila partecipanti), tutorial stagionali per imparare i ritmi della terra e corsi di permacultura. Gli iscritti a Facebook sono più di 135mila e quasi 60mila i follower su Instagram. Ma più che per i numeri generati, i social network contano come finestre affacciate sul bosco coltivato e diventato un mestiere in tempi per nulla facili. La crisi climatica non aiuta, ma spinge a cercare altre strade per la sostenibilità. Che vuol dire anche il recupero di tecniche antiche e l’applicazione di nuove strategie rese più facili dalle tecnologie.
Un intero capitolo del libro, per esempio, è dedicato alla produzione del compost, ovvero del terriccio ottenuto dal processo di decomposizione della materia organica, in gran parte costituita dagli scarti di cucina. Ogni giorno gettiamo nei cassonetti montagne di risorse preziose, il cibo non consumato. “È vero che i rifiuti organici vengono recuperati anche in impianti pubblici di compostaggio, ma è possibile far compiere questo processo anche in proprio, senza bisogno di disporre di grandi spazi. Una volta ottenuto il compost lo si può usare per coltivare l’orto, sui vasi o per arricchire la terra del giardino. Valorizzare gli scarti di cucina e una serie di altri scarti vegetali, come le foglie secche, l’erba tagliata o la segatura ci permette di contribuire con una attività pratica alla portata di tutti alla soluzione di una serie di problemi molto gravi. Questo è un classico caso in cui tante gocce messe insieme possono diventare un fiume che trasporta un vero cambiamento.”
Perché il compost aiuta l’ambiente
Il compost è un materiale capace di stimolare la fertilità della terra e un suolo fertile e ricco di vegetazione in buona salute ha ricadute positive impensabili. La terra fertile produce cibo di migliore qualità che contribuisce a mantenere noi che ce ne nutriamo in salute. In un suolo del genere viene conservata una grande quantità di carbonio in forma stabile e quindi contribuisce a ridurre la presenza di CO2 in atmosfera e si comporta come una spugna nei confronti dell’acqua. La trattiene, facilita la sua infiltrazione in profondità per ricaricare le riserve sotterranee di acqua dolce. In quel suolo crescono meglio gli alberi e non è possibile pensare di piantare milioni di alberi senza occuparsi anche del suolo che dovrà sostenerne la vita. Un suolo coperto di vegetazione non è sottoposto ad erosione e permette il buon funzionamento del ciclo dell’acqua.”
“I processi di risanamento dei guai ambientali del nostro Pianeta – Francesca ne è convinta proprio in virtù dell’esperienza personale con il bosco che è una risorsa – non potranno essere risolti solo con interventi dall’altro attuati dalle istituzioni a suon di miliardi di investimenti. Serve che ci innamoriamo della terra che ci sostiene e che torniamo a rispettarla e serve un processo di rigenerazione sostenuto da una comunione di intenti. Si può partire anche da una manciata di compost autoprodotto e restituito alla terra.”