Sebbene il loro nome scientifico sia Pfas, sigla che sta per “sostanze perfluoroalchiliche”, sono note anche come forever chemicals, ossia “sostanza eterne”, in virtù della loro capacità di permanere nell’ambiente per tempi lunghissimi. Sono una classe di composti chimici largamente utilizzati in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi; ma purtroppo sono anche molto nocivi per l’ambiente e per la salute degli esseri viventi. “Largamente utilizzati” vuol dire che sono praticamente ovunque: contengono Pfas tappeti, pelli, rivestimenti dei contenitori per il cibo, pentole, vernici, tessuti, perfino cannucce di carta. E a quanto pare anche le batterie agli ioni di litio, come ha svelato uno studio condotto dagli esperti della Texas Tech University e recentemente pubblicato sulle pagine della rivista Nature Communications.
Anche alle batterie agli ioni di litio si addice l’attributo di “largamente utilizzate”: si trovano praticamente in qualsiasi dispositivo elettronico, e la crescente diffusione di autoveicoli elettrici le ha rese ancora più comuni. Proprio in virtù di questo, gli autori dell’articolo appena pubblicato hanno sottoposto diversi tipi di batterie agli ioni di litio a diversi test di laboratorio per saggiarne il contenuto e l’eventuale predisposizione al rilascio di sostanze nocive: in questo modo, hanno evidenziato che effettivamente le batterie al litio contengono e rilasciano bis-perfluoroalchilsulfomidi (o bis-Fasi, una sottoclasse di Pfas), sostanza le cui persistenza ambientale ed ecotossicità sono comparabili a quelle di composti noti da più tempo, tra cui il famigerato acido perfluoroottanoico, o Pfoa.
“I risultati della nostra analisi”, spiega Jennifer Guelfo, una degli autori del lavoro, “mettono in luce un problema legato alla produzione, allo smaltimento e al riciclaggio di queste batterie, che tendenzialmente si associano all’idea di ‘energia pulita’. Ridurre le emissioni di anidride carbonica con innovazioni come le auto elettriche è fondamentale, ma bisogna stare attenti agli effetti collaterali, come, in questo caso, l’aumento dell’inquinamento da Pfas. È necessario facilitare tecnologie, controlli di produzione e soluzioni di riciclaggio che possano contemporaneamente mitigare la crisi climatica senza rilasciare inquinanti altamente persistenti nell’ambiente”.
I ricercatori, in particolare, hanno raccolto e analizzato campioni di acqua, neve, suolo e sedimenti nei pressi di stabilimenti di produzione in Minnesota, in Kentucky, in Belgio e in Francia, registrando in tutti i siti una concentrazione di bis-Fasi molto sopra la norma. I dati, inoltre, evidenziano come queste sostanze riescano a viaggiare molto velocemente e molto lontano muovendosi nell’aria, il che può aumentare la dimensione delle aree potenzialmente contaminate. E ancora: i test hanno mostrato che i bis-Fasi non si decompongono con il tempo, proprio come accade agli altri Pfas; fortunatamente, alcuni trattamenti (per esempio l’uso di carbone attivo granulare e lo scambio ionico, già usati con gli altri Pfas) sembrano essere efficaci nella rimozione dei bis-Fasi dall’acqua.
“I nostri risultati”, proseguono gli autori, “dimostrano che gli approcci di purificazione progettati per altri Pfas, tra cui il Pfoa, sono efficaci anche per rimuovere i bis-Fasi. Auspicabilmente, queste tecniche saranno utilizzate sempre di più e gli impianti di trattamento saranno aggiornati per essere conformi ai livelli massimi di contaminazione da Pfas recentemente emanati dall’Agenzia per la protezione ambientale statunitense (Epa)”.