Seimila chilometri abbondanti di distanza e 2-3 millenni. E un epilogo sicuramente disuguale. Eppure in quella landa inospitale, tra le sabbie del deserto di Lut e le alture del Baluchistan, in Iran, gli studiosi – italiani che stanno svelando i segreti dell’antichissima Shahr-i-Sokhta hanno avuto una folgorazione che si è trasformata ormai in associazione mentale, se non proprio in nick. Per definire questa città e questa particolare civiltà, vissuta tra la seconda metà del quarto millennio avanti Cristo e svanita mille-millecinquecento anni dopo, si parla ormai della “Pompei d’Oriente”.
Come nella sontuosa città romana, rasa al suolo nel 79 d. C., anche là tutto è rimasto immobile, “immortalato” in un’istantanea del tempo. “Conservato non dalla lava, come accadde con l’eruzione del Vesuvio. Ma dalla sabbia del deserto salato di Lut, uno dei più inospitali della terra insieme al Gobi – racconta Enrico Ascalone, direttore scientifico del Progetto archeologico multidisciplinare internazionale a Shahr-i Sokhta, avviato nel 2016 dal dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento che lo finanzia con il ministero degli Affari Esteri ed enti privati, e che lavora fianco a fianco con i colleghi della spedizione archeologica diretta da Mansur Sajjadi per l’Iranian Center for Archaeological Research (che a Shahr-i Sokhta scavano dal 1997). La missione congiunta ha portato ora nuove scoperte, raccolte nel volume “Scavi e ricerche a Shahr-i Sokhta”, che sarà presentato domani all’Università del Salento.
Iran, la Pompei d’Oriente di 5mila anni fa
Nata intorno alla seconda metà del quarto millennio nell’area del Sistan, non lontano dai confini con Pakistan e Afghanistan, collassata intorno al 2.300 per cause ancora sconosciute, iscritta alla lista Unesco per il suo “valore universale”, dal 2014, Shahr-i Sokhta era un fiorente centro di commercio e agricoltura, culla di un melting pot tra le quattro grandi civiltà fluviali: Oxus, Indo, Tigri-Eufrate e Halil.
“La nostra idea – racconta Ascalone all’Agenzia Ansa – è che fosse una società strutturalmente eterarchica e non gerarchica. Diversi gruppi tribali coesistevano in pace, senza predominio uno sull’altro. Lo dimostrano le tipologie tombali e l’assenza di mura difensive, segno che non avevano apparato militare”. Le concrezioni saline, poi, hanno sigillato reperti e strutture, restituendo agli archeologi interi spaccati di vita.
“Su una superficie di 300 ettari, ne abbiamo scavato appena il 5 per cento – dice ancora Ascalone – ma sappiamo che una delle attività più remunerative era il commercio di turchesi e bellissimi lapislazzuli. Gli edifici erano alti anche due metri, arricchiti di decorazioni parietali che, però, non rappresentavano figure, ma motivi geometrici. Lo stesso per giare, porte o sigilli: nessuna divinità, probabilmente perché senza un’elite al comando non c’era neanche bisogno di veicolare messaggi di propaganda. Di certo, amavano il lusso: ricoprivano i pavimenti con stuoie e usavano molte perle”.
Scoperte centinaia di tavolette in argilla di seimila anni fa: erano nella “Pompei d’Oriente”
Le ultime campagne di scavo hanno segnato due svolte. La prima, la datazione dello stesso centro, che gli esami sul carbone delle fornaci e delle cucine anticipano di 300 anni, rispetto al range 3.200 a.C-1.800 a.c ritenuto sinora . La meraviglia pura è stato poi trovarsi davanti a centinaia di quelle che gli esperti chiamano ‘proto-tavolette”. “Sono rettangoli in argilla di 10 centimetri per 3 – spiega l’archeologo – Rudimentali, ma con annotazioni numeriche con linee e punti. Le abbiamo trovate diffusamente, anche in casa, e testimoniano una certa organizzazione sociale e amministrativa, oltre a una consuetudine ad annotare entrate e uscite. C’è anche un piccolo ‘metrino’, un righello in argilla con linee distanti 1,1 centimetri. Sarà oggetto di studio, ma potrebbe essere stata la loro unità di misura, perché tutti i mattoni sono di misure multiple di 11. Siamo nell’età del bronzo iraniano e questi rinvenimenti dimostrano l’inizio di un processo di urbanizzazione, che, secondo me, non si è compiuto proprio perché non esisteva un’elite. E perché non ci fu tempo”.
Già, ma perché “morì” Shahr-i Sokhta? “E’ il grande mistero da sciogliere ora – risponde Ascalone – Non ci fu un episodio scatenante come l’eruzione del Vesuvio. Il collasso, però, avvenne in pochi decenni”. Per ora le analisi paleo-botaniche puntano l’indice sul clima. “Le variazioni dei monsoni avrebbero provocato ampie aree di siccità e queste una crisi commerciale ed economica”. Insomma, Shahr-i Sokhta non era più quel centro fiorente di vita e prosperità. Finendo abbandonata, alla sabbia del deserto (Ansa)