Gli abitanti dell’Isola di Pasqua sono letteralmente sopravvissuti a due anni in cui non hanno beneficiato della manna finanziaria che fino ai giorni della pandemia avevano ricevuto dal turismo. Ora che, dal primo agosto, quel lembo di terra immerso nel Pacifico, tra gli ultimi angoli del pianeta, ha finalmente riaperto ai viaggi di piacere, gli indigeni provano sentimenti contrastanti. Se da un lato gli ospiti, per svariate ragioni, non ultimo il loro contributo al Pil, continuano ad essere i benvenuti, dall’altro c’è il desiderio di far perdurare quello stile di vita ancestrale giocoforza ritrovato. Il che poi coincide con l’idea di proteggere la loro stessa isola e, in altre parole, di resistere alla tentazione del ritorno al “tutto come prima”.
“Il momento che i nostri avi avevano predetto è finalmente giunto – racconta all’agenzia France Presse Julio Hotus, membro del Consiglio degli anziani di Rapa Nui, territorio speciale del Cile, dalle cui coste dista 3.500 chilometri. Secondo lui, le generazioni precedenti, che abitavano la terra dei celebri moai, le grandi teste di pietra dall’origine ancora misteriosa, insistevano sull’importanza di assicurare e perpetrare l’autonomia alimentare dell’isola: un monito che i giovani hanno solo finto di ascoltare.
Dall’oggi al domani, nel marzo 2020, i 7mila abitanti permanenti dell’isola, lunga 24 chilometri, larga 12, per un’estesione di 167 km quadrati, si sono trovati a dover recidere tutti i collegamenti (aerei) con la terraferma per difendersi dal Covid. Olga Ickapakarati, che di norma vendeva piccole figure in pietra riproducenti i moai si è improvvisamente vista costretta a seguire le orme degli antenati e coltivare la terra. “Ci siamo ritrovati senza niente: a quel punto si è cominciato a lavorare nel giardino” attorno alla sua casa in legno con il tetto in tela – racconta ad AFP -. Per garantire il sostentamento alla popolazione, la municipalità dell’Isola di Pasqua ha messo in atto un programma d’urgenza di distribuzione di sementi. Olga ha piantato pomodori, spinaci, barbabietole, bietole e sedano ma anche erbe aromatiche, come basilico, origano e coriandolo. Al momento del raccolto, ha donna ha regalato il prodotto che non consumava ad altre famiglie. E così hanno fatto gli altri residenti, fino a creare una fitta rete di solidarietà. “Tutti gli isolani sono così, hanno il cuore d’oro. Se vedo che ho abbastanza pomodori o legumi, li do ad altri” – assicura questa nua, espressione che nella lingua locale significa “nonna”, che vive con i nipoti.
Liberati da due anni dalle frenesie dell’overtourism, gli abitanti dell’isola hanno sperimentato un modo di vivere nuovo e antico allo stesso tempo, dal quale non sembrano almeno per ora voler recedere. Un tempo nel quale 11 aerei alla settimana sbarcavano e re-imbarcavano fino a 160mila turisti l’anno in una terra che è nel Patrimonio Unesco dal 1995. “Noi andremo di nuovo a promuovere il turismo, ma spero che la lezione che ci ha dato la pandemia verrà conservata per il futuro”, dice Julio Hotus. L’aereo atterrato pochi giorni fa, dopo 28 mesi di isolamento, ha generato tra i residenti grande emozione, anche solo per il semplice fatto di vedere dei volti nuovi dopo tanto tempo. La riapertura, per ora, sarà graduale: due voli la settimana all’inizio, poi via via frequenza in aumento. Per il momento, i grandi alberghi sono chiusi.
L’isolamento forzato ha anche indotto Rapa Nui ha riflettere sull’impellente necessità di prendersi cura delle stesse risorse naturali dell’isola: accesso all’acqua ed energia verde. Il graduale ritorno al mondo del lavoro “contemporaneo” avverrà con precedenza agli abitanti dell’isola, in ossequio al “codice culturale” Tapu, la normativa ancestrale che favorisce la solidarietà, spiega il sindaco Pedro Edmundus Paoa. “Il turista, a partire da oggi, diventa un amico del luogo, mentre fino ad oggi veniva considerato uno straniero che ci rende visita – aggiunge il sindaco.
Gli stessi moai, alti fino a 20 metri e pesanti fino a 80 tonnellate, emblema dell’Isola di Pasqua grazie alla forza del loro mistero – diventano a loro volta oggetto di riflessioni nuove. “Il cambiamento climatico, con i suoi eventi estremi, mette in pericolo il nostro patrimonio archeologico – mette in guadia Vairoa Ika, responsabile per l’ambiente della municipalità -. La pietra degrada, quindi il parco deve prendere misure adeguate per proteggerle”, spiega, senza ulteriori precisazioni. “Il problema con i moai è che sono molto fragili – aggiunge Julio Hotus -. Dovremo lasciare da parte il modo di vedere turistico-paesaggistico, e semmai prenderci cura di questi pezi unici e proteggerli, perché hanno un valore incalcolablie”, conclude Julio, sperando che il suo “consiglio di anziano” non cada nel vuoto.