Nel caso approdasse alla Casa Bianca, quanto sarà green la presidenza di Kamala Harris, ora in corsa per la nomination democratica? La risposta dipende, naturalmente, dal termine di paragone che si sceglie. Se si fa il confronto con Donald Trump, che durante i suoi 4 anni di Amministrazione condusse gli Usa fuori dall’Accordo di Parigi e che ora lascia intendere di voler addirittura smantellare la National Oceanic and Atmospheric Administration, descrivendola come “uno dei principali motori del degli allarmi sui cambiamenti climatici”, beh l’attuale vicepresidente rischia di apparire un sorta di Greta Thunberg con qualche anno in più.
Tuttavia, il vero modello con cui misurarsi è proprio l’Amministrazione Biden, di cui Kamal Harris è la numero due, da molti osservatori definita la miglior “presidenza climatica” che gli Stati Uniti abbiano mai avuto. E in effetti, l’anziano presidente, che ora ha rinunciato a ricandidarsi, può vantare una serie di misure volte a ridurre le emissioni di gas serra, a cominciare dall’Inflaction Reduction Act, la più grande legge di spesa per il clima nella storia degli Usa, il cui obiettivo è ridurre le emissioni di CO2 entro il 2030 del 42% rispetto ai livelli del 2005. Harris, in questi quattro anni da vice, ha naturalmente promosso e difeso le politiche green di Biden. E’ stata lei, per esempio, nel dicembre scorso a rappresentare al massimo livello gli Stati Uniti nella Cop28 di Dubai, quella che, grazie alla triangolazione Usa-Cina-Arabia Saudita, ha portato allo storico, quanto precario, accordo sulla transition away dai combustibili fossili.
Alla Cop28 Harris ha annunciato l’impegno degli Stati Uniti a raddoppiare l’efficienza energetica e triplicare la capacità di energia rinnovabile entro il 2030. E un piano da 3 miliardi di dollari per il Fondo verde per il clima che aiuti le nazioni in via di sviluppo ad adattarsi alle sfide climatiche. In qualità di vicepresidente, Harris ha anche sostenuto lo stanziamento di 20 miliardi di dollari per il fondo per la riduzione dei gas serra dell’Environmental Protection Agency, volto ad aiutare le comunità svantaggiate che affrontano gli impatti climatici. Ma se finora ha promosso le politiche climatiche del presidente Biden, adesso che corre da sola, Kamal Harris dovrà definire una sua propria strategia green, da contrapporre a quella devastante del ticket Trump-Vance.
E allora, per decifrare la reale sensibilità ambientale della vicepresidente, i media statunitensi sono andati a recuperare quanto detto e fatto da Harris nei suoi incarichi precedenti. Come candidata alle Presidenziali, nel 2019, Harris propose un piano climatico da 10mila miliardi di dollari per raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2045, inclusa l’elettricità al 100% a zero emissioni di carbonio entro il 2030. Secondo il piano, il 50% dei nuovi veicoli venduti avrebbe dovuto essere a zero emissioni entro il 2030, e il 100% delle automobili entro il 2035. Una proposta che, come quelle di molti altri candidati, non era altro che una lista dei desideri. D’altra parte, come senatrice della California, Harris era stata uno dei primi co-sponsor del Green New Deal, progetto per la transizione degli Usa verso un’energia pulita al 100% entro un decennio, avanzato per la prima volta dalla deputata dem Alexandria Ocasio-Cortez e dal senatore Edward Markey nel febbraio 2019.
Qualcosa di più concreto lo si ritrova nel suo curriculum precedente, come procuratore distrettuale di San Francisco, dal 2004 al 2011, e poi come procuratore generale della Stato, dal 2011 al 2017. Da procuratore distrettuale di San Francisco, Harris creò quella che lei stessa definì la “prima unità di giustizia ambientale della nazione”, un team per perseguire i crimini ambientali che colpiscono i più poveri e che ha indagato diverse società della metropoli californiana per violazione delle leggi sui rifiuti pericolosi. I suoi avversari le rinfacciano però che l’unità avrebbe intentato solo una manciata di cause legali, e nessuna di queste era contro i principali inquinatori industriali della città. In qualità di procuratore generale, Harris ha ottenuto un risarcimento di 86 milioni di dollari da Volkswagen per aver equipaggiato i suoi veicoli con un software che “truccava” i dati sulle emissioni effettive. E ha indagato su ExxonMobil, accusando il colosso petrolifero di aver ingannato l’opinione pubblica e gli azionisti sui rischi del cambiamento climatico. Ha anche intentato una causa civile contro le compagnie Phillips 66 e ConocoPhillips per violazioni ambientali nelle stazioni di servizio, che alla fine si è conclusa con un risarcimento di 11,5 milioni di dollari. E ha condotto un’indagine penale su una compagnia petrolifera per una fuoriuscita di petrolio nel 2015 a Santa Barbara: la società è stata giudicata colpevole e condannata per nove accuse penali. Abbastanza per farne una leader capace di guidare gli Stati Uniti e il mondo nella lotta al riscaldamento globale? Forse no. Ma l’alternativa è un presidente finanziato dall’industria più ricca della storia, quella del gas e del petrolio.