Nel cuore della Rift Valley i giovani volontari dei National Youth Service, istituzione governativa che nel Kenya svolge (anche) le mansioni civili proprie dell’esercito in tempo di pace, disbosca con i machete la fitta coltre di arbusti che ha quasi cancellato una linea ferroviaria secolare. Eloquente testimonianza del momento di basso profilo – o, se si preferisce, “low tech” – che sta vivendo, almeno in Africa, il “Belt and Road Initiative”, cinese, ii gigantesco programma di investimento in infrastrutture avviato a inizio anni Dieci nei Paesi in via di sviluppo, con il manifesto scopo di avviare le vie di comunicazione del futuro, e di giocarvi un ruolo preponderante.

Le cose, oggi non stanno andando come previsto. E quello che si osserva in queste settimane è l’amara conseguenza della mancanza di fondi, che impedisce di completare la linea superveloce da 1.000 km che dovrebbe – o avrebbe dovuto – collegare il porto di Mombasa, nell’estremo sud del Kenya, all’Uganda. Ad oggi, il tracciato termina nel nulla, a 468 chilometri dal confine, in un’area selvaggia. E ora il governo locale cerca di metterci una pezza recuperando e rimettendo in sesto la ferrovia coloniale costruita dagli inglesi nell’Ottocento, all’incirca sulla stessa tratta. Al di là dell’evidente responsabilità della pandemia, analisti e accademici attribuiscono il rallentamento al calante appetito di Pechino per i grandi investimenti all’estero, al tracollo dei prezzi di merci e materie prime locali che ha compromesso la solvibilità di molti Paesi africani, disincentivando i potenziali creditori.

“La Cina non è più nella fase degli investimenti à gogo – racconta all’agenzia di stampa Reuters Adam Tooze, storico presso la Columbia University di New York -, semmai ora Pechino è in una fase di riequilbrio”, aggiunge l’autore del libro “Shutdown”, in cui analizza gli effetti della pandemia sull’economia mondiale, per concludere che il surplus delle partite correnti cinese “sta calando un po’”.

Kenya, alta velocità “cinese” per unirla all’Uganda. Ma il progetto si è fermato

Gli investimenti di Pechinom nei 138 Paesi oggetto del Belt and Road è calato del 54 per cento dal 2019, sino ai 42 miliardi scarsi dell’ultimo anno, la somma più bassa da quando il progetto ha preso corpo, nel 2013, secondo Green BRI, un gruppo di analisi cinese che monitora l’iniziativa. Per quanto concerne l’Africa, che racchiude 40 degli Stati interessati dal BRI, i 10 miliardi del 2017 sono calati ai 3 scarsi del 2020, secondo un report dello studio legale inerrnazionale Barker McKenzie. Un colpo, per tutti quei governi che contavano su cospicui anticipi in denaro per costruire autostrade e ferrovie capaci di collegare Paesi senza sbocco sugli oceani ai porti ed alle rotte commerciali verso Asia e Europa: secondo l’African Development Bank, nel 2021 il continente soffre un deficit di investimenti nelle infrastrutture di 90 miliardi di euro. “E la pandemia ha sicuramente aggravato le cose – spiega il presidente Akinwumi Adesina -, citando il bisogno di addizionali infrastrutture a sostegno del servizio sanitario.

In stand by oltre all’alta velocità Kenya-Uganda, altri progetti targati BRI come una ferrovia da 2,6 miliardi di euro in Nigeria e un’autostrada da 400 milioni in Camerun. Nel primo caso, il progetto sembra destinato ad andare in porto, grazie a un prestito ottenuto dalla Standard Chartered Bank londinese. La highway che dovrebbe collegare la capitale camerunense Yaoundé con l’emergente hub economico di Douala è al momento sospesa. Simili ritirate di Pechino hanno in anni recenti causato la dismissione di progetti infrastrutturali da miliardi in Malaysia, Kazakhstan e Bolivia.

Le autorità keniane, al momento, prendono tempo. La loro linea è quella di presentare la ferrovia superveloce – con tanto di viadotti a campata rialzata in modo da consentire il passaggio degli animali, giraffe ed elefanti inclusi – è un progetto a lungo termine, che alla fine vedrà la luce, anche se non si sa bene quando. .. “La ferrovia a scatamento ordinario sarà completata, perchè è parte del progetto BRI – spiega James Macharia, ministro dei trasporti del Kenya. Al momento, però, il governo locale non è in grado di reperire i 3,5 miliardi necessari al completamento dell’opera e deve ripiegare sul restauro dei vecchi ponti e viadotti del periodo coloniale, che ha un costo inferiore ai 100 milioni. Paradossalmente, le lentezze di Nairobi finiscono per avere ripercussioni oltreconfine. La costruzione della moderna ferrovia ugandese che dovrebbe congiungersi con quella keniana non procede perché la Exim Bank cinese ha congelato un prestito da quasi 2 miliardi. Motivo: la tratta non avrebbe il prolungamento a Sud-Est (in Kenya, appunto).

(reuters)

Ma c’è dell’altro all’origine del fenomeno. AidData, un laboratorio di ricerca del College of William and Mary, Williamsburg, Virginia, analizzando i progetti abortiti tra Malaysia e Bolivia ha concluso che “una parte crescente della classe politica dei Paesi a basso e medio pil stanno gradualmente abbandonando il progetti BRI per problemi concernenti il costo eccessivo, la corruzione e la sostenibilità del debito”. Una tesi contestata da Pechino, che, in una nota del ministero degli esteri ha spiegato che “non tutti i debiti sono insostenibili” e aggiungendo che dal suo lanciio il Belt and Road ha “innalzato in misura consistente i principi di condivisione per quanto riguarda consultazione, contribuzione e benefici”.

Lo Zambia, grande produttore di rame, è stato il primo Paese africano ad andare in bancarotta durante l’era Covid, non essendo riuscito a pagare oltre 10 miliardi di debiti internazionali. Uno studio recente suggerisce che più della metà del debito era dovuto a investitori pubblici e privati cinesi. Nel 2018, Pechino ha accettado di saldare milioni di debiti dell’Etiopia. La sostanza è che i Paesi africani hanno in passato contratto debiti offrendo come contropartita le rispettive materie prime, come i metalli e il petrolio. Il Sudafrica è uno dei Paesi che è diventato via via più reluttante a seguire questo percorso. “Non possiamo ipotecare il nostro petrolio – dice a Reuters il ministro ugandese del lavoro e dei trasporti, Katumba Wamala, confermando che Kampala ha rifutato di impegnare il petrolio ancora da estrarre per assicurarsi il prestito necessario a completare la ferrovia.

L’attuale stretta finanziaria implica che i governi africani siano costretti a decisioni strategiche, in termini della sostenibilità del debito, ha spiegato Yvette Babbm analista olandese presso Willlam Blair. “Non esiste un capitale infinito”.