Se ho appena finito di mangiare la mia insalata in busta, oppure ho consumato un prodotto che era contenuto in un sacchetto, o ancora un cracker o un altro cibo confenzionato, dove butto l’incarto se sopra c’è scritto che è fatto in bioplastica? Nell’Italia che dovrebbe spingere per un ciclo virtuoso di economia circolare dei rifiuti, per migliorare la raccolta differenziata e aiutare l’ambiente, la risposta non è né semplice né scontata. Con l’aiuto di alcuni esperti, proviamo a fare chiarezza.
Dove smaltisco le bioplastiche?
Quando si parla di “bioplastiche”, nonostante la parola possa ingannare, in primo luogo non bisogna pensare che quel rifiuto andrà conferito nella raccolta della plastica. Solitamente si tratta di contenitori o oggetti fatti in materiali polimerici, che dovrebbero avere la caratteristica di essere compostabili e/o biodegradabili, materiali che potrebbero avere origine sia vegetale, animale o da fonti rinnovabili, sia da fonti fossili come il petrolio. A livello di polimeri e di composizione non sono solitamente utili nel processo di riciclo della plastica e dovrebbero dunque seguire un altro percorso. Quale?
”Il discorso è complesso ma in linea di massima dobbiamo osservare ciò che c’è indicato sulla confezione e fidarci dei produttori” spiega Anna Sagnella ricercatrice del laboratorio Mister Smart Innovation collegato al Tecnopolo Cnr di Bologna, che ha svolto studi su l’eco packaging. Se il nostro scarto di bioplastica “contiene la dicitura compostabile possiamo pensare di conferirlo nel compost, l’umido per intenderci. Si presume che andrà in un impianto di compostaggio, ma dipende da quale di impianto tipo a seconda dei Comuni. Se invece ha solo la dicitura biodegradabile, che significa che da quanto comprovato dal produttore dovrebbe biodegradarsi in un determinato tempo, questo non significa che dovrebbe andare nell’umido: di conseguenza andrà conferito nell’indifferenziato”.
Dunque i fattori chiave per comprendere il corretto smaltimento di un prodotto in bioplastica dovrebbero essere se è compostabile (nell’organico) o meno (nell’indifferenziata) mentre la questione biodegradabilità per certi aspetti risulta relativa. “Gli shopper che vengono indicati come biodegradabili si degradano in un tempo variabile solitamente entro 90 giorni, alcuni Comuni però hanno impianti di compostaggio anaerobico e il che significa che solitamente smaltiscono materiale con tempi di 20 giorni. Di conseguenza, se buttiamo un prodotto biodegradabile nel compost non è detto che venga smaltito correttamente. Così come potrebbe valere anche per alcune bioplastiche descritte come “eco” o amiche dell’ambiente ma che così non sono. Se si vuole tentare di conoscere la via più corretta per smaltire un rifiuto su cui si hanno dubbi, bisognerebbe informarsi su che tipo di impianto di smaltimento ha il proprio Comune, il quale a sua volta dovrebbe fornire indicazioni ai cittadini” aggiunge Silvia Ricci, responsabile Rifiuti e Economia Circolare dell’Associazione Comuni Virtuosi.
Una questione divisiva
Di recente la questione chiave della biodegradabilità è stata oggetto anche di visioni discordanti ad esempio tra Cnr, Assobioplastiche e Consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile (Biorepack). Uno studio del Centro nazionale di ricerche afferma infatti che “materiali biopolimerici sottoposti a un processo di degradazione, rispettivamente in mare e sabbia, hanno mostrato tempi di degradazione comparabili a quelli di materiali non bio“, in sostanza – su un determinato periodo di tempo – le bioplastiche si degradano lentamente nell’ambiente, anziché in tempi celeri. Studio che Assobioplastiche ha criticato parlando della necessità invece di “un più ampio e approfondito esame dal punto di vista tecnico” anziché “gettare ombra sull’intero settore delle bioplastiche”.
Tra le tesi di Biorepack c’è invece quella che le bioplastiche compostabili e biodegradabili vadano smaltite nell’organico dato che sono “perfettamente compatibili con il trattamento della frazione organica e nessun ostacolo all’attività di impianti di compostaggio e digestori anaerobici”. Il problema semmai, dice il consorzio, sono le frazioni di materiale non compostabile che vengono gettate nell’umido. “C’è ancora troppa disinformazione e impreparazione sul perché è importante effettuare una corretta raccolta differenziata dei rifiuti organici e perché insieme a loro vanno conferiti anche gli imballaggi in bioplastica compostabile, come sacchetti, stoviglie e cialde per le bevande certificate EN13432. E questa scarsa informazione alimenta pericolose fake news” ha affermato Marco Versari, presidente di Biorepack.
Sul tema è intervenuta anche Greenpeace, al Forum internazionale dell’economia dei rifiuti promosso dal consorzio Polieco. Secondo Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna inquinamento dell’associazione, “la maggior parte dei rifiuti organici in Italia finisce in impianti che non sono in grado di trattare efficacemente i materiali usa e getta in plastica compostabile. La plastica ‘green’ certificata come compostabile secondo la EN13432 e conferita nell’umido, invece che degradarsi e divenire compost finisce nella maggior parte dei casi in inceneritori o in discarica. Dati alla mano in Italia il 63% della frazione organica è inviata in impianti (anaerobici) che difficilmente riescono a degradare la plastica compostabile. E il restante? Confluisce in siti di compostaggio dove non è detto che resti il tempo necessario a degradarsi, rappresentando un problema più che un’opportunità”.
Lo studio inglese: 60% della plastica compostabile non si decompone
A sostenere tutte le complessità legate alle poche informazioni certe sulla plastica compostabile è anche uno studio di ricercatori dell’University College of London, appena pubblicato sulla rivista Frontiers in Sustainability. Gli esperti, dopo un lungo esperimento chiamato “The Big Compost Experiment” effettuato per due anni nel Regno Unito, affermano che il 60% della plastica considerata “compostabile” a casa non si decompone completamente, rischiando di finire nel nostro suolo.
Lo studio spiega che i cittadini restano ancora confusi (per esempio su etichette o mancanza di indicazioni univoche) su come smaltire questo materiale, i ricercatori evidenziano la necessità di rivedere e riprogettare la gestione dei rifiuti di plastica che viene definita come “sostenibile”. I risultati dell’esperimento, che ha indagato sia sulle abitudini dei cittadini sia sul compost casalingo, dimostrano che “gli imballaggi compostabili non si decompongono in modo efficace nella gamma delle condizioni di compostaggio domestico del Regno Unito, creando inquinamento da plastica”.
Problema di etichette e regolamenti in arrivo
In questo contesto in cui restano posizioni contrastanti, un punto di incontro comune che forse potrà aiutare i cittadini nello smaltimento più opportuno potrebbe essere presto quello di etichette chiare sui prodotti. Il 30 novembre la Commissione europea dovrà presentare la proposta per un “regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio”, di cui di recente Materia Rinnovabile ha pubblicato una anticipazione della bozza. Tra i passaggi di questa bozza c’è il tema di valutare la plastica compostabile solo se c’è un chiaro beneficio per l’ambiente o la salute umana e, secondo il possibile futuro regolamento, “la contaminazione incrociata dei rifiuti di imballaggi in plastica convenzionali e compostabili porta a una minore qualità delle materie prime secondarie risultanti e dovrebbe essere evitata alla fonte. Sebbene si preveda un aumento dell’uso di materiali plastici compostabili, i consumatori sono sempre più confusi circa il corretto percorso di smaltimento degli imballaggi in plastica compostabili. È quindi necessario stabilire regole chiare sugli imballaggi compostabili, che impongano l’uso di tali materiali, in particolare della plastica, solo quando il loro utilizzo comporta un chiaro beneficio per l’ambiente o la salute umana. Questo vale in particolare per i casi in cui l’uso di tali materiali aiuta a raccogliere o smaltire i rifiuti organici” si legge.
Tra le indicazioni fornite ci sono la necessità che ad esempio le etichette adesive attaccate a frutta e verdura e i sacchetti in bioplastica sottili e leggeri dovranno essere compostabili in impianti industriali di compostaggio (entro due anni dall’entrata in vigore), mentre per gli shopper dipenderà dagli Stati membri solo “se sono disponibili schemi di raccolta dei rifiuti e infrastrutture di trattamento dei rifiuti appropriati, per garantire che tali imballaggi entrino nel flusso di gestione dei rifiuti organici”. In generale, la bozza sottolinea il fatto che la plastica compostabile non potrà essere utilizzata per altri scopi e invoca l’uso di etichette più chiare e precise per aiutare i cittadini per un sicuro smaltimento dei loro prodotti, dalle bioplastiche sino ad altri materiali biodegradabili.