Le terre rare sono vitali sia per la rivoluzione green che per la manifattura tecnologica quindi non dovrebbe stupire lo sforzo internazionale per individuare nuove strategie di approvvigionamento, fra cui il recupero dai rifiuti e sottoprodotti minerari. Proprio su questo fronte Svezia, Sudafrica, Australia e Stati Uniti aspirano a diventare avanguardie e di fatto suggerire una strategia di emancipazione dalla dipendenza delle forniture cinesi. È bene ricordare infatti che, secondo i dati raccolti dalla Commissione Ue, Pechino detiene il 63% dell’estrazione globale di questi minerali e l’85% della raffinazione. Senza contare la produzione del 90% dei magneti a base di terre rare (Neomidio, Ferro e Boro) che vengono usati nelle turbine eoliche e nei veicoli elettrici.

Il tema di fondo è che, al netto dei fragili equilibri geopolitici, i prezzi delle terre rare sono diventati così alti da giustificare la ricerca di fonti alternative. Fra queste emerge la soluzione proposta dalla società mineraria svedese Lkab che punta a estrarre materiali rari dai detriti e sottoprodotti provenienti dalla lavorazione mineraria del ferro. Per altro impiegando la tecnologia della norvegese REEtec, che secondo gli esperti ha un impatto ambientale inferiore rispetto ai processi di estrazioni tradizionale usati per la separazione delle terre rare in Cina. Il Royal Melbourne Institute of Technology (Rmit) ha stimato che in 325 depositi di sabbie minerali di tutto il mondo vi siano circa 16,2 milioni di tonnellate di terre rare – le riserve mondiali (già scoperte) sono calcolate tra 120 e 150 milioni di tonnellate. Contemporaneamente l’Idaho National Laboratory statunitense ha calcolato che ogni anno a causa della sola produzione di acido fosforico vanno sprecate nei rifiuti non meno di 100mila tonnellate di terre rare

La strategia internazionale di recupero dei rifiuti

Il progetto svedese di Lkab è uno dei sei internazionali (al di fuori della Cina) che entro il 2027 consentirà, secondo i consulenti di Adamas Intelligence e Reuters, di recuperare da sabbie e attività minerarie legate al ferro oltre 10mila tonnellate di terre rare come Neodimio e Praseodimio (NDPr). In pratica l’8% della domanda prevista per questi due minerali chiave per il settore green elettrico, e di conseguenza un volume talmente grande capace di abbattere del 50% il preventivato deficit.

“Al momento questi progetti sono il risultato più elementare ottenibile”, ha confermato Ryan Castilloux, Ceo di Adamas Intelligence. “Ma la domanda, rispetto alla produzione, è destinata a crescere nel breve e medio termine, quindi c’è un’opportunità per queste fonti approvvigionamento facilmente accessibili”. Una richiesta alimentata anche dal cosiddetto piano Net Zero suggerito dalle Nazioni Unite per l’abbattimento delle emissioni di gas a effetto serra: impossibile raggiungerlo senza mettere in gioco anche soluzioni e tecnologie green, che richiedono appunto le terre rare.

L’approccio di Lkab verrà replicato anche da African Rainbow Minerals a Phalaborwa, nel nord-est del Sudafrica, ma sui rifiuti dell’estrazione di fosfati accumulati dagli anni ’50. A regime la produzione entro il 2016 dovrebbe arrivare a 1.850 tonnellate di ossidi di NdPr all’anno. E così farà anche Iluka in Australia trattando tonnellate di sottoprodotti minerari accumulati negli anni ’90 presso il sito di Eneabba, e quelli provenienti da altri siti, per produrre circa 2.700 tonnellate sempre di ossidi NdPr. La raffineria di terre rare dovrebbe aprire nel 2025. Phoenix Tailings sfrutterà invece una tecnologia messa a punto da un gruppo di ricercatori dell’MIT di Boston per recuperare terre rare da materiali di scarto di una vecchia miniera di ferro della zona di New York. “Non ci sono rifiuti, zero emissioni e lo stiamo facendo in modo competitivo con i prezzi cinesi”, ha assicurato il Ceo dell’azienda Nick Myers. A regime, contano entro il 2026 di produrre 2.589 tonnellate di ossidi di NdPr all’anno.


Poi c’è il caso della statunitense Energy Fuels, normalmente specializzata nella produzione di uranio, che ha acquistato un sottoprodotto delle sabbie minerali, ovvero Monazite, dall’azienda chimica Chemours per estrarre terre rare. L’obiettivo è di rimuovere l’uranio e poi inviare il carbonato di terre miste alla filiale estone della canadese Neo Performance Materials per la separazione. Sempre entro il 2026 punta ad avere un proprio impianto capace di produrre tra le 1.500 e 3.000 tonnellate anno di ossidi di NdPr. Infine l’australiana VHM ha in progetto una propria raffineria di terre rare che a partire dal 2027 dovrebbe essere in grado di produrre circa 850 tonnellate di ossidi di NdPr all’anno.

Per aprire nuove miniere ci vuole troppo tempo

Idealmente la soluzione più efficace per risolvere il problema della disponibilità di terre rare sembrerebbe essere quella di inaugurare nuove miniere, ma non è così poiché richiede molto tempo. Lkab ha individuato il più grande giacimento di terre rare europeo presso Kiruna, una città del Nord della Svezia a un centinaio di km dai confini con Norvegia e Finlandia. Il problema è che, considerati gli iter autorizzativi e poi le operazioni di intervento, ci vorranno circa 10-15 anni per una stabile e proficua estrazione. Invece lo stesso progetto di Lkab per recuperare terre rare, fluoro, gesso e fosforo dai sottoprodotti di due miniere di minerale di ferro – già esistenti nel nord della Svezia – dovrebbe arrivare a compimento in circa 4 anni.