Nonostante diamo per scontato il fatto che la Groenlandia stia fondendo sotto la pressione delle crescenti temperature globali degli ultimi decenni, comprendere e studiare le cause e i processi di tale fusione è fondamentale per prepararsi agli impatti sulle regioni costiere di tutto il mondo. Il climatologo Dennis Höning del Potsdam Institute for Climate Impact Research e il suo team hanno identificato in un nuovo studio due punti di non ritorno (tipping points) che determinano il destino della calotta glaciale Artica. I tipping points sono soglie in cui il comportamento di un sistema subisce un cambiamento irreversibile. In questo caso, si parla della perdita permanente di ampie porzioni della calotta glaciale groenlandese.

Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters dell’AGU, la fusione della parte meridionale dell’isola danese avverrà senza dubbio quando l’umanità rilascerà 1.000 gigatonnellate (1 gigatonnellata = 1 miliardo di tonnellate) di carbonio nell’atmosfera.

Il secondo punto, più allarmante del precedente, ci anticipa che l’immissione di 2.500 gigatonnellate di carbonio comporterà la perdita quasi totale della calotta glaciale. Per dare un’idea di quanto velocemente questo potrebbe accadere: dagli anni Sessanta ad oggi abbiamo emesso qualcosa come 100 parti per milione di CO2, che corrispondono a circa 800 gigatonnellate di anidride carbonica.

“Il primo punto critico non è lontano dalle condizioni climatiche odierne, quindi rischiamo di attraversarlo”, ha affermato Höning. “Una volta che inizieremo a scivolare, cadremo da questo dirupo e non potremo risalire.”

Una complessa interazione di fattori, tra cui la temperatura dell’aria e dell’acqua, le correnti oceaniche, l’atmosfera artica, le precipitazioni e molti altri, influenzano dove e quanto la perdita del ghiaccio avviene ogni anno. La difficoltà nel prevedere come interagiscono questi fattori, unita ai lunghi tempi necessari per studiare una calotta glaciale così massiccia, ha reso difficile nel passato prevedere con precisione come la calotta glaciale potrebbe rispondere a vari scenari climatici e, quindi, a diversi livelli di emissione di CO2.

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Per l’analisi gli scienziati hanno utilizzato un modello che hanno coperto l’arco di 20.000 anni e nelle quali le emissioni variavano da 0 a 4.000 gigatonnellate. Uno dei risultati piu’ importanti risultati del team e’ che ,man mano che la calotta glaciale fonde, la sua superficie sarà esposta a temperature più calde che si trovano a quote più basse, creando un ciclo di feedback che accelera ulteriormente il processo di fusione. Höning spiega che se un breve aumento della temperatura di 2 gradi Celsius non innescherebbe questo ciclo di feedback, il mantenimento di temperature dell’aria globali elevate per centinaia di anni o più lo potrebbe fare.

Una volta che la calotta glaciale attraversa il punto di non ritorno, la fusione diventa inevitabile. Questo implica che anche una riduzione dell’anidride carbonica atmosferica ai livelli preindustriali non sarebbe sufficiente per far ricrescere in modo significativo la calotta glaciale e, quindi, ridurre il livello dei mari. “Non possiamo continuare le emissioni di carbonio allo stesso ritmo per molto più tempo senza rischiare di superare i punti di non ritorno”, ha avvertito Höning. “La maggior parte della fusione della calotta glaciale non avverrà nel prossimo decennio, ma non passerà molto tempo prima che non saremo più in grado di contrastarlo”. Siamo agli sgoccioli.

(*Marco Tedesco è uno scienziato del clima, esperto glaciologo, del Lamont – Doherty Earth Observatory presso la Columbia University e ricercatore del Goddard Institute of Space Studies (GISS) della NASA)