B con le distopie! Il protagonista del romanzo che sto finendo di scrivere lo dice, per essere sinceri, con meno eleganza. Ma gli ho prestato un’insofferenza che è anche mia: rispetto a un genere di racconto – letterario, filmico – che tende a proiettarci in un domani minaccioso. Non si contano i libri, spesso libracci, in cui le grandi metropoli sono invase dalle acque. A un certo punto, magari, si affacciano gli alieni. Vedo un rischio concreto nell’alimentare a dismisura un immaginario giocato sulla catastrofe post-datata: puoi esserne spaventato ma per gioco, riconoscendola come iperbole narrativa – una specie di caricatura del possibile. E comunque, non riguarda l’immediato.


In realtà, nelle oscillazioni violente di un quadro climatico sufficientemente stravolto, la sconcertante evidenza restituisce una distopia già in atto. Ha infiltrato il presente: come fa con le case l’acqua che sommerge e cancella Cantiano, Marche, Italia.


La dimensione che più sfugge agli umani – un paradosso che spesso rovina intere esistenze – è quella del presente: la capacità immaginativa riesce a lavorare sulla memoria e sul futuro, a cogliere meglio in forma di ricordo o di presagio ciò che è già sotto gli occhi. Se ne ha la prova nel discorso politico: quando per l’appunto si appella alla grandezza (spesso idealizzata) di figure del passato; quando, nell’illustrare programmi ambiziosi quanto aleatori, si rivolge ai giovani con insopportabile retorica. I giovani, che – da frase fatta – “sono il nostro futuro”. Il futuro di chi? Intanto esiste e richiede cura e si sfarina e si complica il presente di tutti.


“Il caldo e il freddo estremi non consentono di fabbricare un mondo”, ha osservato per tempo un filosofo che, in certi pomeriggi di studio, poteva e può dare qualche preoccupazione. Si tratta di Hegel, che aveva colto o recuperato – dall’alba del diciannovesimo secolo – l’indiscutibile tensione della specie umana verso un “optimum” climatico comunque instabile. L’attesa della singola bella giornata. La spinta migratoria verso climi più temperati. Il Sapiens è duttile, adattabile, sì, e tenace, ma soffre nella furia degli elementi. La meteorologia domina da sempre nelle conversazioni spicce, da bar e da mercato; alle cosiddette previsioni del tempo diamo più di un’occhiata al giorno, ma la verità più impegnativa non viene mai ripetuta dal colonnello dell’aeronautica: il nostro organismo soffre nella furia degli elementi, va in panne se le temperature si innalzano oltre misura, sragioniamo e boccheggiamo nel caldo afoso, sentiamo sfaldarsi la tenuta del nostro complesso energetico; viceversa, a tredici gradi esterni, se nudi, cominciamo a tremare. Se la temperatura corporea scende a trentatré gradi, non stiamo più in piedi.

L’impatto del clima e delle condizioni atmosferiche sulla vita dei popoli non è meno significativo nell’esistenza di un singolo individuo: stati ansiosi, depressione, istinti suicidi o violenti, oscillazioni dell’appetito, del desiderio sessuale, alterazioni della motilità intestinale. Questo per richiamare un’ovvietà fattasi opaca: niente ha più rilievo del clima rispetto al semplice e miracoloso fatto di essere qui, di essere vivi.

Lavorando al romanzo di cui dicevo, ho risalito i secoli in cerca di voci umane in grado di testimoniare la vertigine emotiva, lo sconcerto, la disperazione di fronte alla violenza degli sbalzi climatici. Ho trovato invocazioni e preghiere, l’attribuzione atterrita al divino del furore con cui temporali e grandinate devastano i raccolti, picchi di calore che rendono inabitabili zone desertificate. Ho interrogato la capacità delle società di assorbire gli shock legati alle crisi ambientali non in un futuro possibile, ma nel passato, secoli di gelo, anni senza estate, stagioni torride che minano la tenuta degli imperi. E ho –   ingenuamente! Tardivamente! – colto ciò che non sfugge a storici, antropologi, climatologi: che niente è stato più ferale, per la sopravvivenza delle comunità umane su questo pianeta, di un clima ostile.

Il 6 settembre scorso, a Sacramento, California, il termometro ha toccato i 47 gradi. Dove qualcuno legge eccessivo allarmismo, e con un’alzata di spalle stizzosa liquida come catastrofisti e apocalittici scienziati e cittadini impegnati, c’è una solida sequenza di dati. Che fatica comunque a generare autentica preoccupazione, come se nella cultura umana l’idea di un’apocalisse a rate – per certi versi già piuttosto visibile – fosse meno sinistra e omicida di un’apocalisse che si compie di colpo, in un solo istante. È la “grande cecità”, la rimozione di cui ha parlato lo scrittore indiano Amitav Ghosh, quella che impedisce anche a noi scrittori di vedercela davvero con flutti e tifoni, se non per gioco. Se non quando l’acqua arriva in cucina: durante l’uragano Sandy – ha raccontato Zadie Smith – ho sceso quindici piani di scale a piedi, incinta di parecchi mesi, al buio, solo per raggiungere una connessione wi-fi e mandare una mail a un mio conoscente che negava il cambiamento climatico per dargli questa recente prova della sua idiozia”.

Qualche volta mi dico che, di fronte al fallimento della nostra immaginazione etica e politica, bisognerebbe davvero sostituire allo spirito farsesco-catastrofista alla The Day after Tomorrow un più solido e non meno angosciante The Day before Yesterday. Provare cioè – come invita a fare il glaciologo Carlo Barbante – a dissolvere le nebbie della fantascienza con notizie dalla Storia. Lui si riferisce ai dati concreti (“per capire cosa lo studio del passato possa dirci del clima di oggi, per poter poi meglio prevedere anche quello di domani”). Io aggiungerei un dato emotivo: e anziché inventare creaturine romanzesche da piantare in un futuro remoto, recuperare l’angoscia di chi in un mondo diventato inabitabile per il caldo sperimentava l’inferno in terra. E non per metafora. O chi, in un mondo raggelato, si domandava: che ne sarà di noi in questo secolo di gelo?

Dobbiamo fidarci di queste voci, di questi sguardi: seguirli mentre indovinano un sole pallido, quasi spento, dietro il velo compatto dei cirrostrati. Mentre si disperano di fronte a una terra infeconda. La presenza di selvaggina è dimezzata; i capi di bestiame, sfiniti, crollano nei torrenti di acqua gelida – ne vanno recuperate le carcasse, e poi, con astuzia, con rabbia, spartite. Perché il vero grande indicibile nemico è la fame, e (come leggevamo sui libri di scuola, mandando a memoria date di battaglie e anni di regno in uno sbadiglio) il prezzo dei cereali raddoppia, triplica; il costo del pane cala o aumenta anche solo in base alle piogge. Non è un caso – racconta chi “predice” il passato – che Filippo II venisse tenuto minuziosamente al corrente delle variazioni climatiche nei suoi vasti domini.

 

Paolo Di Paolo

Nel 2005 è stato finalista del Campiello giovani, ha esordito con “Nuovi cieli, nuove carte”, poi ha proseguito la sua attività con numerosi libri-intervista. Nel 2019 con “Lontano dagli occhi” vince il Premio Viareggio. Il suo ultimo lavoro è la cura di un’antologia di scritti di Indro Montanelli