La portata storica dell’Accordo di Parigi del 2015 non aveva a che fare solo con il numero dei Paesi coinvolti e con l’ambizione degli obiettivi di contenimento delle temperature, ma anche con il riconoscimento di un inedito percorso a tappe per raggiungerli.
Elemento centrale di questo percorso sono gli NDC (Nationally Determined Contributions), cioè i singoli piani di riduzione delle emissioni degli oltre 190 firmatari dell’Accordo. I mattoncini che compongono il mosaico, che prende il nome di Global Stocktake e che misura quanto fieno c’è in cascina.
In questo senso, la Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sul clima di quest’anno (COP30) è particolarmente importante, per almeno tre motivi. Intanto perché è la prima che si svolge in un Paese dove è possibile manifestare dopo la tripletta delle autrocrazie fossili Egitto-Emirati Arabi Uniti-Azerbaijan che hanno ospitato le ultime tre COP. In secondo luogo per la sua forza simbolica, dal momento che – come voluto da Lula – si terrà a Belem, alle porte dell’Amazzonia brasiliana. Il terzo e più importante motivo è che, essendo passati 10 anni dall’Accordo di Parigi, non si potrà più negoziare a carte coperte.
Solo che, alla data di scadenza del 10 febbraio 2025 entro cui presentare i propri NDC, poco più di 10 Paesi l’hanno fatto: Brasile, Uruguay, Ecuador, Emirati Arabi Uniti, Svizzera, Singapore, Nuova Zelanda, Regno Unito, Isole Marshall, Andorra, Santa Lucia, Zimbabwe e – prima che si insediasse Donald Trump – anche gli Stati Uniti. 182 Paesi mancano all’appello.
Guterres: “Basta guardare Los Angeles per capire la crisi climatica”
Questa negligenza fa parte di una più ampia cornice di perdita di interesse e fiducia nei sistemi di governance globale e nelle Nazioni Unite, che ne sono la sua massima espressione. L’attacco più forte alle UN, al momento arriva proprio dai Paesi Occidentali e dai loro alleati. Dagli Stati Uniti e dal loro ritiro dalla cooperazione in sede UN per i diritti umani (UNHRC), per la sanità (OMS) e per il clima (Accordo di Parigi). Da Israele, che ha dichiarato il Segretario Generale delle UN Guterres “persona non gradita”, che ha quasi ucciso il Direttore Generale dell’OMS Ghebreyesus e che ha messo al bando l’UNRWA, in violazione della Convenzione Generale sui Privilegi e le Immunità delle Nazioni Unite. Dall’Argentina, che ha preso la decisione senza precedenti di ritirare la propria delegazione dalla COP29 sul clima di Baku. E dall’Unione Europea, che non ha presentato il suo piano aggiornato di riduzione delle emissioni e che si costringe all’irrilevanza anche sull’umico tema su cui toccava palla, il clima.
Spesso le Nazioni Unite vengono raccontate come un’entità che ci guarda dall’alto e che è incapace di rimediare ai disastri dei nostri governi. La realtà è che le Nazioni Unite non sono niente di più e niente di meno della somma delle posizioni politiche dei Paesi – quasi tutti quelli del mondo – che ne fanno parte. Eppure, nonostante i vari Trump, Netanyahu, Milei, Meloni, le UN tengono ancora la barra dritta, anche grazie ai Lula, Sanchez, Sheinbaum, Mottley.
In Italia si scrive spesso che per fortuna ci è rimasta ancora una guida saggia, lungimirante, progressista, anche se anziana. È vero. Ma non è il Papa, è il Segretario Generale António Guterres. Sulla carta sarebbe l’uomo più potente al mondo, nella pratica è quello più ignorato. Guterres sa essere al contempo coraggioso e diplomatico su tutti i fronti: dall’Ucraina a Gaza, dal Sudan al Congo, dalla pandemia al clima. Ora che sappiamo anche che gennaio 2025 è stato il mese più caldo di sempre e che “siamo sulla strada per l’inferno climatico con il piede schiacciato sull’acceleratore” forse, forse, dovremmo ascoltare Guterres e credere nelle sue, nostre, Nazioni Unite un po’ di più.