Un bianco innaturale intorbida, dopo qualche giorno di pioggia, fiumi e sorgenti delle Apuane. Si tratta di un effetto collaterale dovuto agli sversamenti di marmettola, una fanghiglia che si crea dalla mescolanza tra scarti di lavorazione del marmo, terre di cava e acqua. Un miscuglio micidiale che cementifica gli alvei, distrugge i microhabitat, occlude le branchie di pesci e invertebrati, forma uno strato impermeabile che soffoca ogni forma di vita. Le cave, accusano gli ambientalisti, dovrebbero smaltire gli scarti di lavorazione come rifiuti speciali ma spesso non lo fanno e li abbandonano nei piazzali, da dove poi la pioggia li trascina nei fiumi e infine in mare.
Secondo i dati pubblicati dall’Istituto Studi e Ricerche (ISR) della Camera di Commercio di Massa-Carrara, nel 2020 il totale dell’escavato dalle cave carraresi ammontava a 2 milioni e 800mila tonnellate di materiale. A ciò si deve aggiungere il materiale escavato dalle cave di Massa, che si attestava intorno alle 144mila tonnellate. Si tratta di cifre in diminuzione rispetto agli anni passati. Un bilancio frenato dovuto dalla chiusura parziale dei mercati, diretta conseguenza della pandemia di Covid-19. Oggi questi numeri sono in risalita.
Tutto ciò che viene estratto può rientrare in tre diverse categorie: materiale escavato, materiale lavorato e materiale che viene utilizzato per la produzione di prodotti chimici. Mentre i confini del parco naturale regionale delle Alpi Apuane sono stati rimodellati nel 1997, con la Legge Regionale 65/1997, che ne ha modificato il perimetro con lo scopo di preservare alcune delle cave di marmo, da allora considerate come aree contigue. Il provvedimento ha fatto sì che il parco fosse considerato una sorta di “gruviera”: ettari su ettari di zone protette intervallati dalle cave di marmo.
Quanto all’impatto ambientale, il “Progetto speciale cave” di Arpat ha monitorato la qualità dei corpi idrici superficiali e sotterranei su tutto il territorio regionale. Arrivando a importanti conclusioni: “La presenza di elevate quantità di solidi sospesi ha effetti soprattutto sullo stato ecologico dei corpi idrici incidendo negativamente sul numero di specie animali e vegetali presenti e sulla consistenza delle singole specie (numero di individui). Le particelle in sospensione infatti occludono gli interstizi tra i ciottoli distruggendo il microhabitat favorevole alla vita dei macro-invertebrati, che rimangono sepolti, ma anche delle microalghe che – oltre ad essere la loro fonte principale di nutrimento – influiscono sulla capacità autoepurante del substrato fluviale”, spiega lo studio.
La marmettola agisce anche come inibente sull’attività centrale dei corsi d’acqua per flora e fauna: “Blocca gli scambi idrici con le falde sottostanti, impedisce la crescita di specie vegetali che sono anche il nutrimento per molti animali”, dice Licia Lotti, fisica e dirigente Arpat del Dipartimento provinciale di Massa-Carrara. “Fino agli anni ’80 era comune osservare come i fiumi presentassero un colore lattescente. Da allora, una serie di iniziative, sia legali che di sensibilizzazione, hanno fatto sì che le sorgenti di inquinamento si siano ridotte e la situazione migliorasse. L’acqua ora viene filtrata e trattata a uso potabile prima dell’immissione nella rete idrica”.
Tuttavia, il quadro complessivo rimane estremamente complicato. “Nelle zone di taglio del marmo è previsto che l’acqua utilizzata per il raffreddamento del filo diamantato non si disperda sul piazzale ma che venga raccolta per poi essere inviata a un sistema filtrante. Si tratta, però, di una prescrizione. Se questo processo viene applicato in modo rigoroso, funziona. Non sempre è così. Allo stesso tempo, non è nemmeno possibile delegare tutto alle attività di controllo”.
Senza contare il rischio idrogeologico. “Gli scarti dell’estrazione, intasano, cementificandolo, il letto di fiumi e torrenti, contribuendo al rischio esondazioni. Le alluvioni sono state otto in 20 anni a Carrara, tra cui quella rovinosa del 2014″, aggiunge Maria Paola Antonioli, presidente Legambiente Carrara.
Negli anni, per di più, il commercio degli scarti di lavorazione è cresciuto tendenzialmente, dando vita a sua volta anche ad altri elementi inquinanti. Come i gessi rossi, che si ottengono unendo i fanghi rossi, scarto di produzione del biossido di titanio, con la marmettola in qualità di stabilizzante. Per ogni tonnellata di biossido di titanio, prodotto in Italia solo nello stabilimento di Scarlino, si generano sei tonnellate di gessi rossi, che devono essere smaltiti come rifiuto. Ma così non è. E ad essere contaminate da questi miasmi tossici sono in particolare le acque sotterranee della cava di Poggio Speranzona, in provincia di Grosseto, e quelle degli stabilimenti di lavorazione del marmo nel carrarese.
“È una situazione molto delicata, la politica fatica a intervenire, in quanto si considera il settore del marmo come principale fonte di lavoro del territorio. Ma lo stigma inquinante adesso comincia a essere insostenibile”, conclude Antonioli.