Gli elefanti comunicano con i loro simili attraverso una vasta gamma di vocalizzi e gesti, che cambiano non soltanto a seconda del messaggio da veicolare e del ruolo nel branco dell’interlocutore, ma anche in considerazione  dell’attenzione che quest’ultimo presta loro. È soltanto l’ultima conferma, documentata in uno studio pubblicato di recente su Communications Biology, che gli elefanti, seppur fisicamente distinti e lontani dalla nostra famiglia di primati, condividono con noi un sistema sociale sofisticato e capacità cognitive che la ricerca dimostra essere assai vicine alle nostre.


Ed è proprio questa articolata ed efficace forma di comunicazione, nel branco e tra i diversi branchi, che rende ancor più difficili le strategie di conservazione e gestione della popolazione di elefanti africani (Loxodonta africana). “Gli elefanti, animali dotati di grande intelligenza, utilizzano regolarmente la trasmissione culturale  – spiega Gianni Bauce, guida professionista di safari e autore di Il destino degli elefanti. Declino, conservazione e futuro del gigante della savana africana (Infinito Edizioni 16,15 euro) – perciò bisogna tenere conto, per esempio, che se si cerca di spostare alcuni esemplari da una zona all’altra si rischierà di fallire, perché un elefante sa come tornare nella zona che considera “casa”. Allo stesso modo, nel cercare di tenerli lontani da campi coltivati e zone abitate, si deve considerare il messaggio che il branco passerà al suo interno e ad altri gruppi sulle strategie di dissuasione messe in atto dall’uomo. La locuzione comune di “memoria d’elefante” è una banalizzazione della capacità di questi animali di ritenere informazioni, elaborarle, trasmetterle ai propri simili e usarle per difendersi e reagire ai pericoli“.


Così, spiega Bauce nel libro la cui prefazione è affidata a Vesta Eleuteri, prima autrice dello studio che ha svelato ulteriori sottigliezze nella lingua degli elefanti, i branchi del parco nazionale di Gorongosa, in Mozambico, quasi azzerati durante la guerra civile negli anni 80-90, quando i guerriglieri li cacciavano per finanziarsi con la vendita di avorio, anche adesso che sono protetti dal governo, che vorrebbe guadagnare dal turismo dei safari, non si lasciano avvicinare e si nascondono, perché ricordano e si tramandano la terribile esperienza con l’uomo.


Tuttavia, ora, in Mozambico la popolazione di elefanti sta crescendo, come in altre zone dell’Africa. Si può allora dire che il Loxodonta africana non è più un animale da proteggere? “L’elefante e la sua sopravvivenza oggi si ritrovano protagonisti di una polemica talmente accesa da assumere talvolta il livello di una bagarre – afferma Bauce – polemica che spesso è alimentata da uno scarso livello di informazione, tanto che pare ciascuno parli di un animale diverso. La questione degli elefanti in Africa è un paradosso complicato, con una situazione di drammatico declino in alcune zone del continente e di una pericolosa sovrappopolazione in altre. Lo Zimbabwe, per esempio, da tempo discute di ridurre il numero di elefanti sul suo territorio, non escludendo anche il loro abbattimento”.


Come sempre, a rompere l’equilibrio naturale che aveva permesso agli elefanti di spostarsi e di non diventare troppi in determinate aree, tanto da esaurirne le risorse, è stato l’uomo. Non soltanto gli elefanti sono stati decimati dalla caccia per l’avorio, ma la distruzione dei loro habitat e l’interruzione di alcuni corridoi di spostamento naturali ha fatto di questi formidabili erbivori a loro volta una minaccia per l’ambiente. “L’elefante, infatti, pur seguendo una dieta vegetariana estremamente diversificata, che spazia dall’erba ai baccelli, dai frutti alle cortecce, dal fogliame ai rami, ai rizomi, non pascola o bruca a caso, – spiega Bauce – ma anzi seleziona accuratamente il cibo a disposizione in relazione alle sue esigenze fisiologiche, alla stagione, alla disponibilità di acqua. Questa sua selettività determina una forte sofferenza quando particolari risorse di cui esso necessita non sono più disponibili, o si riducono drasticamente. Inoltre, ha la capacità di modificare pesantemente l’ambiente in cui vive, tanto da essersi guadagnato l’appellativo di architetto ecologico, perché grazie alla sua mole apre sentieri nella boscaglia più fitta, dei quali beneficiano altre specie animali per spostarsi e raggiungere le fonti d’acqua, non ultimo, l’uomo, il quale non solo ha utilizzato i sentieri degli elefanti per risalire altopiani, superare rilievi o raggiungere fiumi, ma li ha addirittura implementati, asfaltandoli”. L’elefante spostandosi, mangiando, spargendo al suolo prezioso letame e abbeverandosi modifica l’ambiente creando le condizioni per il fiorire della biodiversità, ma allo stesso tempo, se fa tutto questo in un’area ristretta può ridurla a un deserto.

Gianni Bauce
Gianni Bauce 


Soltanto due secoli fa, gli elefanti in Africa erano più di dieci milioni, ma nessuno lamentava la loro sovrappopolazione – osserva Bauce – c’erano spazio e risorse per tutti; poi qualcosa si è guastato e le risorse e gli spazi non sono più stati sufficienti. È innegabile che, in tempi recenti, gli elefanti in Zimbabwe e Botswana sono aumentati oltre la soglia di sostenibilità ed è necessario elaborare strategie di contenimento della loro popolazione. Quali soluzioni adottare però va deciso sulla base di informazioni scientifiche e non sull’onda dell’emotività. Gli elefanti non sono numeri, e va ricordato, comunque, che i circa 650.000 elefanti rimasti sul Pianeta rappresentano

ben poca cosa al confronto degli otto miliardi e oltre di esseri umani”
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