Timore e fascino, fragilità e meraviglia. Di fronte alla natura più estrema gli esseri umani non possono che provare sensazioni contrastanti che sono anche le tracce che sta lasciando il nostro tempo in fuga, assediato dall’emergenza climatica e dagli effetti del riscaldamento globale. Il fotografo Paolo Pellegrin, uno dei maestri della fotografia contemporanea internazionale, ha indagato per più di un anno il tema dell’ecologia estromettendo, per la prima volta nella sua carriera, l’uomo e quindi la sua presenza dalle fotografie. Volutamente.
Le opere, tutte inedite, frutto di un lungo viaggio alla ricerca della grandiosità della natura, dai ghiacciai della Groenlandia (nella foto in alto: Baia di Disko, Illulisat. Groenlandia, 2021) alla foresta primigenia in Costa Rica, dal deserto della Namibia alle zone vulcaniche dell’Islanda, sono entrate nella grande esposizione “La fragile meraviglia. Un viaggio nella natura che cambia”, con la curatela di Walter Guadagnini e il contributo di Mario Calabresi. Un reportage fotografico d’autore incentrato sul tema del cambiamento climatico, ma con un approccio differente rispetto alla testimonianza fotografica di denuncia.
La mostra apre il 17 maggio a Torino inaugurando il nuovo museo dedicato alla fotografia delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Partendo da una committenza originale, l’autore ha compiuto un percorso di avvicinamento e di confronto con la dimensione più affascinante degli ecosistemi del pianeta Terra, quella dismisura che ne rappresenta la sacralità e la bellezza, quasi insostenibile in un contesto di stravolgimenti ambientali così profondi e pericolosi da apparire irreversibili.
Paolo Pellegrin, il contrasto tra la meraviglia e la fragilità della natura come si esprime in queste sue nuove opere di fotografia?
“Alla base c’è sicuramente la consapevolezza di un tempo che ci sta sfuggendo di mano, tutti sappiamo che l’attività umana ha un effetto diretto sul clima, questo oggi non è più un dibattito, è un fatto accertato, e siamo coscienti anche che non abbiamo un tempo infinito per correggere questo andamento. Da qui nasce il lavoro che ho fatto sulla natura con l’idea, in qualche modo vicina al mio lavoro più conosciuto di fotoreporter, di testimoniare e raccontare questo tema che può essere letto come un conflitto, il grande conflitto del nostro tempo, forse più grande di tutti gli altri messi insieme. Oggi c’è la guerra in Ucraina, da dove per altro sono appena rientrato, che in un certo senso è una guerra mondiale per procura, uno scontro tra due sistemi, ma quello che hanno fatto l’antropocene, l’attività umana, sull’ambiente negli ultimi centocinquanta anni e con una grossissima accelerazione negli ultimi trenta e quaranta, è una emergenza globale che riguarda noi tutti oggi, i nostri figli, le nostre esistenze. Non volevo però fare delle fotografie di denuncia del cambiamento climatico, in maniera didascalica, ho cercato piuttosto un approccio diverso per concentrarmi di più sulla meraviglia, sullo stupore e la bellezza che si provano di fronte alla natura estrema”.
Questo viaggio fotografico nella natura che cambia in quali parti del mondo ci porta?
“Ho lavorato sui quattro elementi, aria, acqua, terra e fuoco, pensandoli un po’ come degli archetipi, quindi sono andato alla ricerca anche delle forme più estreme come le tempeste del mare del nord o le eruzioni vulcaniche. Da un lato c’è sempre la meraviglia della potenza e della forza della natura, dall’altro però simmetricamente permane invece questo grande senso di sistemi fragili, danneggiati. Penso alla Groenlandia dove i locali mi dicono che trent’anni fa la temperatura d’inverno scendeva a 45 gradi sotto lo zero mentre oggi è già tanto se arriva a meno 20. Ma è un esempio per mille. Quindi questo stupore e questo senso di trascendenza che genera una natura così forte ed estrema contiene sempre l’idea di fragilità. Ho viaggiato per oltre un anno alla ricerca proprio di questa grandiosità fragile della natura, dall’Islanda alla Groenlandia, dalla Namibia al Costarica, dai fuochi australiani ai ghiacci dell’Antartide”.
Quando ha scattato queste nuove fotografie ha sempre avuto la consapevolezza che i paesaggi ritratti tra qualche decennio potrebbero essere completamente mutati e stravolti?
“È uno dei motivi per cui ho scelto l’approccio di cui parlavo. La fotografia forse non è propriamente il mezzo più adatto a raccontare il tempo lento, per quanto sia assolutamente accelerato, del clima che cambia. Infatti con la fotografia si ricorre sempre a qualche escamotage, per esempio il ghiacciaio fotografato trent’anni fa, vent’anni fa, dieci anni fa e oggi, quindi seguendo un tempo dilatato e dei passaggi lenti. È chiaro che quello che io ho fotografato oggi non sarà più quello fra un po’ di tempo, ma il senso ultimo del mio lavoro è rivolgere con la fotografia un invito all’altro, allo spettatore, fruitore, lettore che so potenzialmente esistere, instaurando un dialogo su questioni e problematiche su cui mi sono interrogato anch’io. C’è la bellezza nel nostro mondo ed è giusto celebrarla. In questa natura ho avuto la sensazione di cogliere un mistero, un senso del sacro, e questo voglio celebrarlo facendo delle fotografie che restituiscano per quanto possibile questi aspetti. Ma sappiamo che se non ci saranno dei cambi di rotta significativi, perderemo specie animali, biodiversità, non solo gli iceberg e i mari che si alzano. Le migrazioni climatiche diventeranno un tema enorme da affrontare. Questo lavoro è quindi anche un monito”.
I conflitti armati mostrano quello che gli esseri umani possono fare ai propri simili, così la natura violata mostra i segni delle attività umane che hanno conseguenze dirette sulla sua integrità. C’è spazio per la speranza, come sostiene il grande naturalista David Attenborough?
“Noi esseri umani siamo così. Siamo divini e diabolici. Creiamo e distruggiamo. Credo però fortemente nella capacità dell’uomo di trovare soluzioni”.
La bellezza della natura può essere in quanto tale generatrice di speranza?
“Assolutamente, la bellezza è il punto d’incontro, ma c’è qualcosa di ancora più grande e di profondo, l’idea di sublime, di sacralità intesa non per forza in senso religioso, anche in senso laico, di una dimensione che in qualche modo ci trascende e che trascende la misura dell’uomo. In alcuni momenti ho avvertito il mistero, in cui c’è anche la capacità degli esseri umani di saperlo cogliere. In ultima istanza questo mio lavoro, in cui per la prima volta non ho fotografato delle persone, alla fine parla anche di noi”.
Vedere da vicino la natura sublime che ci sovrasta che effetto le ha fatto?
“Mi ha colpito la dismisura. Non solo degli spazi ma anche del tempo. Un vulcano che erutta è anche una nascita, la nascita del mondo, delle terre emerse, quindi mi sono trovato a ragionare su una misura straordinariamente più grande di noi. Quando sono andato in Costarica nella foresta primigenia ho scoperto questi lembi di foreste non toccate dall’uomo. È stato come tornare indietro a quattro milioni di anni fa, stavo fotografando qualcosa che era davanti ai miei occhi in quel momento ma che conteneva anche un’eco di un mondo e di un tempo lontani, misteriosi, e forse anche il presagio di cose future”.