Gli esperti la chiamano carbon inequality, “disuguaglianza carbonica”. Prodotto emblematico del nostro tempo, descrive le abissali differenze tra le emissioni pro-capite di anidride carbonica, che riflettono gli standard di benessere dei Paesi ricchi e quelli delle aree meno sviluppate del Pianeta. La ricchezza non è mai stata distribuita in maniera tanto squilibrata come oggi. E ciò ha dirette conseguenze sul tenore di vita, sui consumi e soprattutto sull’impronta carbonica dell’esistenza di ognuno di noi.
Pesi diversi sull’ambiente
In concreto, il “peso” sull’ambiente di un abitante di Paesi dell’Africa subsahariana è come una piuma, se rapportato a quello di uno statunitense o un europeo. Portare le zone più svantaggiate del pianeta a livelli di benessere “occidentali” è un imperativo categorico ed è stato messo nero su bianco nel 2015 dalle Nazioni Unite come primo Obiettivo dello Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030. Ma c’è chi sostiene che questo enorme sforzo contro la povertà potrebbe vanificare le sfide che il cambiamento climatico ci impone. Una narrazione a tratti disfattista, che mira a svuotare di significato la transizione ecologica e a ridimensionare la necessità di passare da un’economia basata sulle fonti fossili, a una ricostruita con le rinnovabili.
Lo studio
A confutare questa tesi arriva un’approfondita analisi dell’Integrated Research on Energy, Environment and Society (Irees) dell’Università di Groningen. Lo studio, pubblicato su Nature Sustainability, dimostra come, in realtà, un miglioramento degli standard di vita per più di un miliardo di persone che oggi vivono con meno di 1.90 dollaro al giorno causerebbe un incremento minimo delle emissioni globali, a fronte di benefici incalcolabili in termini di salute globale e protezione di minoranze e gruppi sociali più vulnerabili.
Sei piccole cose che puoi fare tutti i giorni per il Pianeta
La tesi dei ricercatori è chiara: eradicare la povertà e affrontare il cambiamento climatico sono due dinamiche del tutto compatibili. Il team internazionale, composto da studiosi olandesi, cinesi e statunitensi, ha analizzato un nuovo dataset messo a punto insieme alla Banca mondiale su redditi, consumi e conseguenti emissioni pro-capite di 116 Paesi del mondo. “Tenendo conto delle diverse soglie di povertà a seconda dell’area di provenienza – spiega Benedikt Bruckner, dottorando all’Irees e primo autore – abbiamo stimato l’impronta carbonica di più del 90% della popolazione globale, suddividendola in oltre 200 livelli, dalle più basse alle più elevate”. Gli esperti, coordinati dal professor Klaus Hubacek, hanno così stimato gli effetti in termini di emissioni che avrebbe il passaggio di ogni gruppo da sotto a sopra la soglia di povertà.
La lotta alla povertà non incide sulle emissioni
“Portare un miliardo di persone fuori dalla soglia di povertà assoluta, farebbe aumentare del 1.6-2% le emissioni totali annue“, si legge nelle conclusioni. “È semplicemente sorprendente vedere quanto poco ‘costi’ in termini ambientali l’eradicazione della povertà nelle aree più svantaggiate del pianeta”, nota Hubacek. I gas serra liberati dall’1% più ricco dei consumatori costituiscono oggi il 15% di quelli totali, che creano il riscaldamento globale. In altre parole, le responsabilità di un cittadino del Burundi o del Madagascar, la cui vita “pesa” sull’ambiente ogni anno dai 10 ai 100 kg di CO2 sono molto diverse da quelle di uno statunitense, che ne libera più di 15 tonnellate sullo stesso periodo. Ma le disuguaglianze “carboniche” sono solo la punta dell’iceberg rispetto a quelle sociali ed economiche. La novità è che si potranno appianare senza rinunciare alla sfida della crisi climatica.