Gli oceani del nostro pianeta ospitano oltre 150 milioni di tonnellate di plastica, a cui ogni anno aggiungiamo una quantità compresa pari a 5/13 tonnellate: un’emergenza conclamata, insomma, che crea problemi alla vita marina, all’economia, alla salute umana e al clima. Date tutte le sue implicazioni, la questione è molto studiata dagli scienziati: un nuovo lavoro, condotto da un gruppo di esperti del Royal Netherland Institute for Sea Research e pubblicato sul Marine Pollution Bulletin, ha mostrato che anche il Sole gioca un ruolo nell’inquinamento della plastica.
In particolare, dicono gli scienziati, la parte ultravioletta della radiazione solare è in grado di sminuzzare plastica e microplastica in frammenti ancora più piccoli – la cosiddetta nanoplastica – che si distribuiscono lungo tutta l’altezza della colonna d’acqua, “sparendo” quindi dalla superficie.
“Circa il 2% della plastica visibile, quella che galleggia”, spiega Annalisa Delre, una degli autori del lavoro, “sparisce dalla superficie del mare ogni anno per effetto della luce del Sole. Potrebbe sembrare poco, ma con il passare degli anni la quantità comincia a diventare consistente. I dati che abbiamo esaminato mostrano che la luce solare potrebbe aver degradato una quantità considerevole di tutta la plastica galleggiante che è stata riversata negli oceani a partire dagli anni Cinquanta“.
I risultati dello studio di Delre e colleghi potrebbero aiutare a risolvere il cosiddetto “paradosso della plastica mancante”: dallo sviluppo delle materie plastiche a oggi si stima che ne siano state prodotte circa 9 miliardi di tonnellate, e di questa enorme quantità solo una minima frazione è stata riciclata o incenerita; la maggior parte è finita in discarica o in fiumi e mari, dove gli agenti naturali – tra cui, per l’appunto, anche la radiazione solare – l’hanno sminuzzata in frammenti sempre più piccoli. Questo continuo processo di frantumazione e dispersione fa sì che molta della plastica riversata in acqua sia difficilmente rintracciabile e sembri addirittura “scomparire”.
Naturalmente – nulla si crea e nulla si distrugge – non è così: una spedizione scientifica condotta nel 2016 da un’équipe di esperti che hanno perlustrato le profondità dell’oceano Atlantico a bordo della nave britannica RRS James Clark ha svelato che le microplastiche, a differenza dei detriti di maggiori dimensioni che tendono ad accumularsi in superficie e in zone più o meno delimitate, si distribuiscono in modo più omogeneo, sia in senso geografico che di profondità dell’acqua, e quindi effettivamente sono tutti lì, anche se più difficili da vedere.
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Il gruppo di Delre, per l’appunto, ha cercato di capire se e quanto la luce solare avesse un ruolo in questa apparente sparizione della plastica. Per farlo, ha inserito dei piccoli frammenti di plastica in contenitori riempiti con acqua marina, e poi li ha esposti a un’illuminazione artificiale simile a quella solare, analizzando infine i gas e i composti disciolti nell’acqua. Dalle loro misurazioni, i ricercatori hanno dedotto che almeno l’1,7% della microplastica visibile si degrada ogni anno per effetto della luce solare: per la maggior parte si frammenta in pezzi più piccoli, le nanoplastiche; una porzione minore delle nanoplastiche viene poi attaccata e ulteriormente degradata dai batteri, una parte ancora più piccola si converte in anidride carbonica.
Mettendo tutto insieme, gli scienziati hanno stimato che la luce solare potrebbe aver trasformato circa un quinto di tutta la plastica galleggiante rilasciata nell’oceano: “Con i nostri calcoli”, dice Helge Niemann, un altro degli autori dello studio, “abbiamo aggiunto un pezzo importante al complesso puzzle del paradosso della plastica mancante. Ma c’è ancora molto da studiare: non sappiamo, per esempio, quale sia precisamente l’effetto di queste nanoplastiche sul ciclo vitale di alghe, pesci e altre forme di vita che popolano l’oceano. Dobbiamo ancora continuare a studiare la questione; e nel frattempo dovremmo anche smettere di gettare via la plastica, per evitare di rendere il problema ancora più grave”.