È considerata la pianta madre della mela comune, quella da cui discendono le oltre settemila varietà oggi coltivate in tutto il mondo. Ora sarà seminata in un giardino pubblico a Ome, un comune di tremila anime in provincia di Brescia con un’inconsueta vocazione per la botanica di frontiera. L’antenato selvatico del melo si chiama Malus sieversii e cresce nelle ultime foreste primarie dell’Asia centrale. Una specie ancestrale che, secondo la Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura), attraversa una fase di declino per la perdita di habitat.
Ad agosto un gruppo di una decina di volontari tra biologi e botanici sono partiti da questa piccola cittadina della Franciacorta per il Kirghizistan alla caccia dell’albero delle origini. La domesticazione del melo è così antica che su questo frutto si sono sedimentate centinaia di storie, dalla Bibbia fino ai moderni smartphone. Spesso rintracciare i progenitori naturali delle cultivar alimentari è molto difficile, se non impossibile. Le linee di discendenza tra i prodotti sul banco del mercato e il loro parente selvatico non sono quasi mai lineari. Al contrario, ibridazioni spontanee ed estinzioni impreviste ostacolano i tentativi di ricostruzione genealogica. Ma questa specie originaria di melo è stata scoperta negli anni Trenta dallo scienziato russo Nikolaj Vavilov, un botanico pioniere della genetica di Mendel poi lasciato morire di fame in carcere durante le purghe staliniane (ne parla anche il Premio Nobel Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag). Solo qualche anno fa un gruppo internazionale di ricercatori guidato dalla Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige ha confrontato le sequenze genetiche e confermato il primato del Malus sieversii.
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Seguendo le orme di Vavilov, la spedizione bresciana ha trovato diversi esemplari di questa pianta sia nelle foreste della riserva di Sary-Chelek che in quelle di Arslanbob, a oltre cinquecento chilometri dalla capitale Biškek. Questo Malus, come molti altri antenati selvatici delle cultivar agricole, sono endemici di una vasta area di confine tra la Cina occidentale e gli ex tan russi, regione attraversata dalla catena del Tien Shan, le cosiddette montagne del paradiso. “In questi remoti boschi dell’Asia centrale ci sono alberi secolari di melo policormici, ovvero che hanno assunto un’inconsueta geometria a colonnato, con più tronchi che partono da un solo ceppo – spiega Antonio De Matola, fondatore e curatore degli orti botanici di Ome – Certo non sarà semplice far crescere i semi del Malus sieversii alle nostre latitudini ma è importante assicurare un futuro a questa pianta così emblematica della biodiversità. Il germoplasma di questa specie, che si è sviluppata sul nostro pianeta circa 70 milioni di anni fa, sarà poi a disposizione di tutti gli studiosi”.
Come molti progenitori selvatici, lo studio del DNA di queste piante potrebbe rivelare caratteristiche importanti per la tutela della biodiversità, dell’agricoltura e in campo medico. Oltre ai semi dell’albero ancestrale sono stati raccolti anche quelli di altre specie che potrebbero aver contribuito alla nascita del melo domestico come il Malus Niedzwetzkyana e il Malus Kirghizorum. I semi portati in Italia sono stati recuperati a mano, e con estrema cautela, dai frutti caduti a terra. La spedizione bresciana, intitolata Eden Forever, ha contato sulla cooperazione sul campo dell’Università di Biškek e delle autorità locali e sulla partnership della Fondazione Cogeme e dell’Università di Brescia. Gli orti botanici di Ome sono un’iniziativa dal basso, sostenuta dai volontari, ma dall’alto valore naturalistico.
“Da anni ospitiamo esemplari di piante testimoni della biodiversità del Pianeta. – aggiunge il curatore – Coltiviamo memorie vegetali prima che scompaiano del tutto”. Ci sono fossili viventi come il pino di Wollemi e altre conifere rare ma la collezione più curiosa è quella dedicata ai sopravvissuti vegetali. Come i discendenti diretti di alcune piante che hanno resistito alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki: il Masayuki Ebinuma, un albero di cachi, e il Hibakujumoku, un gruppo di sei Ginkgo Biloba recuperati qualche anno fa in un’analoga spedizione in Giappone.