In Francia l’Assemblea nazionale ha di recente approvato una proposta di legge che intende ridurre l’impatto ambientale del fast fashion, imponendo un sovrapprezzo ai marchi che venderanno nel Paese i loro capi. La scelta non sorprende, se si considera che l’industria della moda è seconda solo al settore petrolchimico per impatto ambientale ed è responsabile dell’8% delle emissioni globali di CO2. Inoltre, consuma e inquina più del 20% dell’acqua per usi industriali (solo l’agricoltura fa peggio). Il 70% dei tessuti è composto da derivati del petrolio e solo l’1% di questi viene riciclato.
In questo contesto, spicca il ruolo in negativo giocato dal fast fashion, la moda usa e getta basata sull’offerta di collezioni che si rinnovano a forte velocità, che ha alimentato negli ultimi anni un ciclo incessante di produzione e consumo, portando all’uso smodato di materie prime e al forte incremento nella produzione di rifiuti. A questo proposito, un’indagine di Greenpeace rivela che ogni anno soltanto nell’Unione europea vengono gettate via 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (circa 12 chili per persona) e l’80% di questi finisce in inceneritori, discariche o nel sud del mondo. Inoltre, il 25% dei capi di abbigliamento prodotti in tutto il mondo rimane invenduto e meno dell’1% dei vecchi abiti viene usato per produrre nuovi vestiti.
Questo spiega il farsi strada dello slow fashion, o moda lenta, un movimento che incoraggia l’acquisto di vestiti non destinati a morire nel giro di una stagione, ma che possono essere indossati più a lungo, prodotti attraverso processi sostenibili. La stessa industria ha iniziato a interrogarsi negli ultimi anni su come introdurre politiche green, investendo nella ricerca su materiali, lavorazioni, smaltimento dei rifiuti, riciclo e riuso. Sono diverse le aziende, soprattutto tra i grandi gruppi, che hanno sposato la filosofia della moda lenta, riducendo il numero di collezioni annuali; promuovendo il riciclo di materiali e limitando il consumo di risorse; optando per tessuti naturali e certificati e puntando su una produzione etica che rispetta i diritti umani.
La strada da percorrere per rendere il settore moda realmente sostenibile è però ancora lunga e occorre fare di più, anche per arginare il rischio di greenwashing (una strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività). Un ruolo importante è rivestito dalla normativa messa in campo a livello europeo che intende favorire una reale sostenibilità nel settore e tutelare i consumatori dalla pubblicità green ingannevole.
La “Eu strategy for sustainable and circular textiles”, lanciata nel marzo 2022, mira a rendere i prodotti tessili più durevoli, riparabili, riutilizzabili e riciclabili. Nell’ambito della strategia, di recente il Parlamento europeo ha dato il via libera definitivo al testo del Regolamento Ecodesign (Espr) che impone la progettazione ecocompatibile dei prodotti sul mercato europeo e il divieto di distruzione dell’invenduto. Sempre il parlamento europeo ha da poco dato il via libera al Supply Chain Act che prevede, a partire dal 2027, per tutte le aziende europee (con più di 1000 dipendenti e un fatturato superiore ai 450 milioni di euro) l’obbligo di prevenire e far cessare, laddove presenti, eventuali impatti negativi della propria catena di approvvigionamento sui diritti umani e sull’ambiente. Tra le norme già in vigore spiccano la Corporate sustainability reporting directive, che obbliga le aziende quotate a rendere conto del proprio impatto ambientale attraverso la pubblicazione di report di sostenibilità, e il Regolamento sulla deforestazione (Eudr) che impone alle imprese una rigorosa due diligence per verificare che le materie prime impiegate non provengano da attività di deforestazione.