Quante volte avrò oramai sbattuto contro la parola Antropocene? E quanti libri avrà oramai incrociato con questo termine nel titolo? Antropos, uomo e koinos, recente, quindi l’epoca dell’uomo, l’era dominata dall’umanità e condizionata dalle sue molteplici attività. Sembrerebbe per noi una buona notizia, una decorosa e beneaugurante età, e invece si è trasformata in una disgrazia, nella sorgente formicolante di quel che gli scienziati hanno indicato come la sesta estinzione di massa, la sesta volta, per quanto fino ad oggi conosciuto, il Pianeta sta subendo una perdita di forme di vita, un calo drastico dovuto a cause ovviamente naturali, se per naturali consideriamo gli eventi così come si manifestano: un vulcano che erutta, un uragano che si abbatte sulla costa del Nordamerica, una cometa che illumina il cielo del Golfo del Messico e fa piombare il globo in un inverno nucleare per decenni. Tutto è natura come il leone che divora la gazzella, l’uomo che inquadra nel mirino la testa di un soldato nemico o i fiori profumati di un glicine monumentale.

Il termine “antropocene” viene coniato nel 1973 ma adottato nell’odierna accezione nel 2000 dal chimico atmosferico olandese e premio Nobel Paul Crutzen. Nel lasso di tempo molto breve in cui l’uomo è transitato dai 100 milioni di abitanti al tempo del Buddha, 2500 anni fa, agli attuali 8 miliardi, la popolazione degli animali selvatici è diminuita ben oltre il 50%, tutti gli ecosistemi sono stati profondamente alterati, così come oramai è evidente dal riscaldamento globale, dalla dissoluzione dei ghiacciai alpini e la riduzione delle calotte polari, l’innalzamento dei mari e l’aumento dei fenomeni atmosferici di entità, per le nostre dimensioni, devastanti.

Tra i saggi che ragionano sulle conseguenze di questo status novus del nostro tempo è appena fiorito tra gli scaffali Geografie del collasso di Matteo Meschiari (Piano B edizioni), seguito, anzi, complemento del precedente Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo (Armillaria, 2020). Questo autore, antropologo-geografo-geopoeta e accademico modenese, classe 1968, nonché artigiano del pensiero, ha già costellato il proprio percorso di piccoli gioielli che i lettori attenti conoscono, e mi riferisco, ad esempio, a Sistemi selvaggi (Sellerio, 2008), Spazi Uniti d’America (Quodlibet, 2012), Geofanie (2015, Aracne), Artico nero (Exorma, 2016) o alla fiaba L’ora del mondo (Hacca, 2019). Da questo succinto elenco si vede che si tratta di un migrante editoriale, come accade a non pochi spiriti liberi che coltivano il proprio tempo di nuove suggestioni.

Che cosa ci dice Meschiari in questo suo ultimo quaderno? In che cosa Geografie del collasso può risultare interessante, nuovo, particolare? I punti di riflessione, di analisi, i cospicui riferimenti culturali, accademici, filosofici si mescolano fra curiosità e punti fermi che oramai vengono ripetuti come mantra – i soliti Jared Diamond e Amitav Ghosh. Si incespica in più occasioni nell’accusa contro un’intelligentia contemporanea molliccia e quasi incapace di prendere atto delle parole d’ordine del nostro tempo. Eppure tra gli scaffali e ancor più nelle vetrine delle librerie gli atti di accusa, le dita puntate, i pamphlet ambientalisti che ci allarmano ogni giorno di certo non mancano, anzi, sono stati e sono un sentiero che nel tempo si è allargato come un’autostrada, all’interno del paesaggio del piccolo recinto dell’editoria.

Ma partiamo dalle sue parole: “Covid-19” scrive Meschiari, “è il primo vero grande trauma collettivo dell’Antropocene, mille volte più potente nell’aggredire l’immaginario delle persone di quello che è stato – ed è – il problema climatico. In questo senso il primo effetto duraturo della pandemia sarà forse quello di preparare l’umanità al prossimo step cognitivo, l’accettazione del collasso ambientale come problema numero uno della specie.” L’attuale transizione dal mondo passato a questo nostro futuro incerto e dominato da una natura che ci si ribella contro, da un pianeta che diventa meno ospitale di quel che potrebbe essere, viene vissuta come una tragedia odierna, attuale, già viva in questo stesso istante dagli ambientalisti, e qui possiamo adottare un’ampia diversificazione di significati, di identità, dagli attivisti integrali agli amanti della natura la domenica, dai polemisti che fioccano sui quotidiani e invocano i giovani FFF agli accademici che dibattono di ecologia profonda, giusto per lasciare campo libero alle molte e distinte sensibilità. Ma, oltre questi circoli, oltre le parabole di parole, le frasi ad effetto, le sincere confessioni colme di spavento, molti altri abitanti del pianeta semplicemente non sanno che fare. O meglio, chi scrive crede che “la gente” già sappia benissimo i rischi, i problemi, le conseguenze, ma queste persone sono consapevoli, al contrario degli ambientalisti, che la loro azione non potrà cambiare granché. Questo raccoglierci tutti insieme intorno a coloro che sanno e che ora vi dicono la verità e quindi predicano le soluzioni opportune non convince e forse non convincerà mai la “gente comune”, ammesso che esista.

Meschiari continua il proprio ragionamento: “Il crollo di molte strutture economiche, sociali, politiche e culturali dovuto alla crisi climatica genererà dolore, a volte caos, ma stimolerà anche qualcosa di diverso dalle solite reazioni retti liane, irrazionali e oscurantiste.” Ovvero: di fronte all’evidente cataclisma in atto quegli umani che resteranno non potranno che ravvedersi, che illuminarsi, che rassegnarsi a capire che la saggezza dei pochi che hanno capito può salvare la specie. Ma sarà proprio così? Non è questa una visione pessimistica della natura diffusa dell’umanità che si basa sul postulato che pochi sono i saggi e quindi pochi davvero capiscono e hanno desiderio di capire? Non è forse questo, proprio questo vedere e sentire le cose così già un inganno, un trucco, una superbia? Forse tutte le persone capiscono, tutte le persone hanno già compreso, ma che cosa possono fare se ogni giorno debbono combattere la fame, la sete, la povertà, le ingiustizie sociali, dentro al disastro l’umanità c’è già, poiché se è vero che la società per così dire occidentale, ed europea, ha vissuto negli ultimi settant’anni un’epoca di costante miglioramento e progresso, il “benessere”, soltanto due passi oltre i nostri confini esistono campi profughi con milioni di persone, guerre – e non stiamo a ricordare l’orrore che ha infiammato la ex-Jugoslavia – malattie, altre pandemie minori ma non meno terrificanti di questa che negli ultimi due anni ci ha paralizzati. Sarebbe molto interessante verificare se il primo atto rivelatore dell’Antropocene come cambiamento apocalittico per gli abitanti di New Orleans non sia invece l’uragano Kathrina, oppure per i superstiti siriani la guerra civile che ha distrutto intere città, o ancora, per i residenti del bellunese e del Trentino l’abbattimento di 14 milioni di alberi da parte della tempesta Vaia. E potremmo citare molte altre situazioni complesse e dolorose.

Di certo Geografie del collasso ci accompagna nella comprensione di molte nostre attuali criticità, i lettori potranno muovere eventuali rilievi, scatenare sussulti, applaudire a scena aperta o semplicemente arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e squadernare il pensiero dei vari autori di cui Meschiari ama circondarsi.

Tiziano Fratus vive in una casa davanti a un bosco. È autore di molti libri e medita.

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