Non c’è solo il granchio blu. Anzi, a “sollevare” l’invasore alieno più iconico di tutti dalle sue responsabilità nella concorrenza con la pesca locali è, stando all’ultima ricerca di un team del dipartimento di biologia dell’università di Padova, un’altra specie invasiva. Che qui, nella Laguna di Venezia, è arrivata in tempi non sospetti (le prime osservazioni risalgono al 2010), facendo assai meno rumore. Si tratta di Mnemiopsis leidyi, meglio conosciuta come noce di mare: spesso scambiata per una medusa, è in realtà uno ctenoforo. Gelatinoso e quasi trasparente, lungo pochi centimetri. Originario dell’Atlantico, è arrivato dalle nostre parti attraverso l’acqua di zavorra delle navi: un grande classico, per le specie invasive.
E invasiva la noce di mare lo è per davvero: l’ultima ricerca di università di Padova e Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale di Trieste, pubblicata sulla rivista internazionale Hydrobiologia, fa luce sulla sua diffusione nella Laguna di Venezia, dove la sua presenza è cresciuta esponenzialmente a partire dal 2014. Favorita, neanche a dirlo, dall’aumento della temperatura delle acque in un ambiente che va registrando forte cambiamento, complice l’intenso traffico navale – generalmente considerato un vettore d’introduzione di specie aliene – e le molteplici attività umane.
Ma perché la noce di mare ha minacciato e minaccia la pesca costiera? Per due motivi essenziali: per un effetto diretto, attraverso l’intasamento nelle reti dei pescatori, e uno indiretto, essendo la noce di mare una vorace predatrice di plancton e di larve di specie particolarmente ricercate perché ritenute pregiate per la pesca. “Proprio così. – annuisce Filippo Piccardi, dottorando nel programma europeo PON ricerca e innovazione all’Università di Padova, primo autore dello studio – Come le più temibili specie invasive che minacciano i nostri ecosistemi, le noci di mare hanno una riproduzione estremamente efficiente: essendo organismi ermafroditi simultanei (presentando dunque entrambi gli apparati riproduttori, maschile e femminile, ndr), un individuo, con condizioni ambientali favorevoli, può produrre fino a 14 mila uova al giorno. A questo ci si collega la loro dieta generalista, che consente loro di mangiare una grande varietà di prede, dallo zooplancton a uova e larve di pesci e molluschi”. Insomma, la loro competizione nella catena trofica minaccia le specie ittiche autoctone. “E i pescatori veneti si lamentano anche dell’impatto diretto sulla pesca tradizionale, in quanti grandi quantità di questi animali vanno ad intasare e ostruire del tutto le reti impedendo al pesce di entrare”, aggiunge Piccardi.
Il risultato? Un calo del pescato lagunare di quasi il 40%, nel periodo 2014-2019, che lo studio mette in connessione diretta con il boom di diffusione di Mnemiopsis leidyi. “E questo progetto interdisciplinare nasce proprio dalla collaborazione fra i ricercatori della sede di Chioggia dell’Università di Padova e i pescatori lagunari – dice Piccardi – sono stati loro i primi a vedere l’intruso in Laguna e a subirne le conseguenze”. Si tratta di un primo esempio di quantificazione dell’impatto di una specie invasiva sulla piccola pesca lagunare. “E il rischio di queste invasioni biologiche è quello della perdita totale di una tradizione di pesca lagunare quasi millenaria che utilizza attrezzi estremamente sostenibili”, aggiunge il biologo. Il riferimento è soprattutto al cogollo, attrezzo da pesca quasi in disuso, ideale proprio per la pesca in laguna e nelle acque basse costiere: generalmente calato in prossimità della riva, si sostiene per mezzo di un palo di ancoraggio, ben visibile a pelo d’acqua. Nello studio la modellazione statistica ha chiarito come l’esplosione demografica della noce di mare sia coincisa con un aumento significativo della temperatura delle acque lagunari e abbia connessioni con il calo, sempre più evidente, del pescato lagunare.
“Non vi è dubbio, del resto, che specie invasive come noce di mare e granchio blu siano una tragedia ambientale e sociale che va affrontata cercando strategie di mitigazione e adattamento sostenibili, che rispettino cioè anche gli ecosistemi locali. – aggiunge Alberto Barausse dell’Università di Padova, che ha coordinato lo studio – Ecosistemi che, come mostra la ricerca, con la loro capacità di autoregolarsi nel lungo periodo sono la nostra principale protezione contro le specie invasive”. Già, ma basterà? Per quanto riguarda la specie più iconica tra quelle invasive, il granchio blu, il ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha riconosciuto nelle scorse settimane “la diffusione eccezionale nei territori dell’Emilia Romagna e del Veneto”. Il focus è proprio “sui danni causati alle produzioni della pesca e dell’acquacoltura e di quelli subiti da strutture aziendali, impianti produttivi e infrastrutture”. Danni per i quali Coldiretti chiede la nomina di un commissario straordinario, con l’avvio di campagne intensive di cattura, con incentivi per i pescatori e un “ripristino” degli habitat lagunari.