“Non esiste alcuna forma di pesca sostenibile. Eppure, per quanto possa sembrare strano, quel che accade nelle isole Faroe è il meno”. Ali Tabrizi, regista di origine iraniana ma d’adozione britannica, non aveva dubbi pochi giorni dopo la pubblicazione su Netflix di Seaspiracy il suo primo documentario. E la sua posizione suona più attuale che mai dopo la mattanza di 1500 delfini nelle isole Faroe del 14 settembre, un numero da record secondo l’associazione Sea Shepherd che ha condannato, ancora una volta, questa pratica annuale.

Scioccante, e a tratti controverso, Seaspiracy racconta quel che stiamo facendo ai nostri mari. È un viaggio che parte dal Sud dell’Inghilterra e arriva alle coste della Liberia, passando per il Giappone, la Thailandia, Hong Kong, con un epilogo cruento proprio nelle isole Faroe, anche se non si tratta di delfini bensì di balene.

Seaspiracy, il documentario sulla pesca diventato virale in poche ore

“È la pesca industriale praticata in Giappone, in Europa come in Cina, che provoca i danni maggiori”, sostiene Tabrizi. “Ci sono comunità sulle coste dell’Africa che pescano per sostentarsi ormai ridotte alla fame dall’industria della pesca. Il 90% del pesce che può finire sulla tavola è ormai andato e nel processo vengono uccise anche altre specie come delfini e squali. Le scene che abbiamo filmato in Norvegia, con la mattanza delle balene e il mare che si tinge di rosso, appartengono ancora a un modo di pescare su scala ridotta e con metodi antichi”.