Diversi Paesi al mondo sarebbero in grado di produrre autonomamente tutto il cibo necessario per sostentare la propria popolazione. Lo afferma uno studio condotto da un gruppo dell’Università di Leyden, nei Paesi Bassi, che ha realizzato un modello di previsione basato sui dati statistici della produzione alimentare e dei consumi forniti dalla FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura).
Secondo i risultati dello studio, pubblicato su One Earth, il 51% della popolazione globale vive in nazioni che sarebbero in grado di auto-sostenersi, a livello alimentare, con risorse di propria produzione. Il tutto sarebbe possibile a patto di ridurre il consumo medio di carne e di assumere più frutta, verdura e proteine di origine vegetale, e di tagliare gli sprechi. La ricerca ha dei limiti, dato che basata su proiezioni statistiche, ma indica che ci sono molti margini di miglioramento anche in ambito agricolo.
Lo studio
Lo studio nasce dall’esigenza di comprendere fino a che punto ogni Paese sia in grado di rendersi maggiormente indipendente dalla rete del commercio globale. Questo è un passo sempre più auspicabile e necessario, soprattutto se pensiamo a epidemie, guerre e altre emergenze nazionali e internazionali. I ricercatori, coordinati da Nicolas Navarre dell’Università di Leyden, hanno esaminato i dati della produzione agricola e delle abitudini alimentari di 204 Paesi nel mondo. Gli autori si sono chiesti se, sulla base delle capacità agricole del singolo territorio, le nazioni selezionate abbiano le potenzialità di rendersi autosufficiente nella produzione di cibo.
Nel modello, oltre ad utilizzare i dati della FAO, hanno considerato una particolare dieta, ritenuta salubre e sostenibile per l’ambiente, definita e proposta da un gruppo di esperti internazionali della Commissione Eat-Lancet. Questa Commissione, legata appunto alla rivista The Lancet, è costituita da 37 scienziati provenienti da 16 Paesi. Ancora in fase di discussione, la dieta “planetaria”, valida per tutti i Paesi, si basa sulla riduzione del consumo di carne, e favorisce alimenti quali frutta, verdura, legumi e grassi non saturi.
I risultati
I risultati dello studio indicano che 86 nazioni su 204 – a cui corrisponde ben il 51% della popolazione globale – potrebbero riuscire con successo ad adottare la dieta Eat-Lancet e a rendersi indipendenti a livello alimentare. Inoltre, mediante interventi mirati sulle colture e cambiamenti nei consumi, ben il 95% dei Paesi potrebbe sviluppare autonomamente un sistema maggiormente sostenibile, sempre basato sulla dieta Eat-Lancet.
La chiave dell’autonomia, secondo gli scienziati, si basa su due pilastri: mangiare meno carne e tagliare gli sprechi. Due terzi delle emissioni di gas serra sono infatti legati all’allevamento di bovini, mentre un terzo di ciò che produciamo a livello globale viene buttato.
Nello schema proposto, gli autori indicano di consumare carne una volta a settimana – o anche una o due volte in più nel caso in cui si riescano contemporaneamente a tagliare gli sprechi in maniera significativa. Se si riducono gli allevamenti intensivi e si utilizzano meglio le risorse prodotte, questo consente di ripensare l’intero sistema (nonché di ridurre per esempio la deforestazione massiva e valorizzare la produzione locale), andando verso l’autosufficienza nazionale. Gli scienziati specificano che l’obiettivo non è però l’autarchia, ovvero la totale indipendenza dai mercati e dalle importazioni, un isolamento che in caso di problemi potrebbe essere rischioso.
Quanto siamo autonomi?
Il quadro teorico delineato dalla ricerca sembra roseo, ma la realtà indica che siamo ancora molto lontani da questo traguardo. Le ragioni sono varie e sono al vaglio di scienziati e rappresentanti delle istituzioni. “A fronte di indicazioni strategiche significative, come la riduzione del consumo di carne e degli zuccheri, la dieta Eat-Lancet presenta però delle limitazioni”, commenta Angelo Gentili, responsabile nazionale agricoltura di Legambiente. “Non entra infatti nel merito dei metodi e delle modalità su cui si basano i sistemi agricoli, per esempio sull’importanza di contrastare l’agricoltura intensiva e di ridurre l’impiego di sostanze chimiche, quali pesticidi e fertilizzanti, in primo luogo quelli contenenti azoto”. Queste molecole minacciano gli insetti impollinatori e mettono a rischio interi ecosistemi.
“Non si può raggiungere l’autosufficienza alimentare senza affrontare questo tema”, sottolinea Gentili. “Avere un quadro completo, che includa anche un dettaglio su questi aspetti, è essenziale per riuscire realmente a ripensare il sistema agricolo e alimentare e andare verso una maggiore autonomia”. Non si può prescindere da questo argomento anche a livello strategico e operativo: la Commissione Europea, infatti, ha proposto di ridurre del 50% l’uso dei pesticidi chimici insieme all’utilizzo dei pesticidi più pericolosi entro il 2030. Ma è anche una questione di qualità e salubrità dell’alimentazione, secondo Gentili, che ricorda i dati del documento Legambiente Stop pesticidi 2021: ben il 35% degli oltre 2500 campioni di alimenti analizzati, di provenienza italiana ed estera, contenevano residui di pesticidi, seppur nei limiti di legge.
Verso la sovranità alimentare
Il tema trattato nello studio su One Earth è molto affine al concetto di “sovranità alimentare”, al centro del dibattito politico ed economico anche in Italia, dove è stato recentemente creato – o meglio rinominato – un ministero apposito. Il concetto di sovranità alimentare non nasce oggi, ma più di 25 anni fa da un movimento internazionale di agricoltori, che mettono al centro il diritto a “cibo sano e culturalmente appropriato”, come si legge nella “Dichiarazione di Nyéléni” del 2007. L’idea è che il cibo sia ottenuto all’interno di sistemi agricoli e alimentari che tutelano l’ambiente e potenziano le attività locali condotte da contadini e famiglie, nell’ottica di favorire la sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Il tutto si contrappone dunque al processo di globalizzazione nella produzione.
Ma come si passa dalla teoria alla pratica? “Nel contesto nazionale ed europeo la sovranità alimentare si abbina con l’agroecologia“, chiarisce Gentili, “un insieme di metodi e approcci agricoli che integrano le necessità di produzione con la difesa dell’ecosistema, per esempio tagliando l’utilizzo della chimica, dannosa per la biodiversità e l’ambiente”. L’ottica dell’agroecologia, prosegue l’esperto, è valorizzare il territorio e riconvertire l’agricoltura, che dopo la rivoluzione verde è stata intensificata in maniera eccessiva, verso un sistema più sostenibile.
Ma siamo lontani da risultati significativi. “Si sta facendo ancora poco”, sottolinea Gentili. “Uno degli interruttori del cambiamento è sicuramente la Politica agricola Comune (PAC), istituita dall’Unione Europea, che da anni fornisce un forte sostegno al comparto agricolo. L’impegno deve essere virato nella direzione dell’agroecologia, promuovendo la biodiversità e l’agricoltura biologica e diminuendo lo spreco alimentare, altro asset fondamentale su cui agire per ripensare davvero il sistema”.