Una gara di Dragon Boat in Cina. L’amore per il Pianeta. La voglia di lasciare a un figlio un mondo migliore. Cosi nasce una startup che cambia il paradigma del riciclo del vetro eche ha vinto il Premio Green&Blue nell’ambito del Premio Nazionale innovazione, il PNI, un percorso unico che l’Ocse nel 2019 ha riconosciuto come best practice per mettere in rete network locali, enti pubblici, investitori, imprese e università. La stratup è partita da Murano. Ogni anno, qui si producono 1000 tonnellate di scarti di vetro. Che finiscono in discarica. Il volume, per intenderci, è equivalente al Campanile di San Marco a Venezia. Davanti a questo problema e alla falsa percezione che il vetro sia al 100% riciclabile (“solo gli imballaggi lo sono, il resto è rifiuto speciale”), ci sono un designer e sua moglie. Cervelli che rientrano dopo anni all’estero, grande passione per l’economia circolare e le nuove tecnologie. Tornano a Murano e si chiedono: Come possiamo utilizzare questi rifiuti e fare qualcosa per il nostro Pianeta?
Cosi Matteo Silverio, 36 anni, e Marta Donà fondano la startup Rehub. Un laboratorio che dà una seconda possibilità agli scarti di vetro che oggi non vengono riciclati, grazie alla tecnologia. “Abbiamo ideato un processo per trasformare il vetro in una specie di pongo che si può modellare. Lo possiamo fare a mano, ma anche tramite le nostre stampanti 3D o utilizzando tecniche a iniezione, e a temperatura ambiente. Per farlo, mixiamo il vetro con dei leganti naturali (ne abbiamo testati più di 50) che lo rendono lavorabile come la plastilina. Così possiamo realizzare qualsiasi oggetto di design e accessori per il mondo della moda. Si tratta di vetro artigianale di lusso”.
Laurea in architettura lui, scienza delle comunicazioni lei, che per anni ha lavorato nell’azienda di famiglia che restaura e produce lampadari con vetri di Murano. Si conoscono in Cina, ai Campionati Mondiali universitari di Dragon Boat. Fanno parte dello stesso equipaggio, rappresentano l’Università di Venezia. Sono sulla stessa canoa. E conquistano il titolo mondiale nei 500 metri. Si innamorano, si sposano, fanno un figlio. “Proprio l’idea di lasciare a lui un Pianeta migliore di quello che ci hanno dato i nostri genitori ci ha spinto a muoverci. Nessuno di noi butterebbe della spazzatura in casa propria. Nessuno brucerebbe un armadio tra le mura domestiche solo perché non piace più. Perché allora dovremmo farlo nella casa del mondo, il nostro Pianeta?”.
Nativo ecologista, project manager, Matteo lavora anche con Carlo Ratti, entra in contatto con i ricercatori del MIT di Boston. Impara un nuovo approccio alle cose, si appassiona alle nuove tecnologie, fa molti progetti con la stampa 3D. Ricercatore all’Università di Venezia, docente al Master in Architettura Digitale, torna a Murano e si trova in un mondo incantato, dove però il tempo si è fermato. “Murano ha un grave problema generazionale. Fra 15 anni non ci saranno più maestri vetrai. E fondare qui una startup è un po’ come dare ai giovani l’esempio di un modo più sostenibile e tecnologico di fare impresa. Il nostro intento è anche quello di democratizzare un materiale che per secoli è stato esclusivo dei maestri vetrai, considerati come nobili e con il privilegio da uomini borghesi di poter sposare le nobildonne”.
E Murano quasi inconsapevolmente ringrazia. “L’isola ha colto la nostra innovazione e ci dà la forza per crederci ancora di più. I vetrai ci regalano gli scarti di vetro, divisi per colore. La stampa del vetro non è una novità. Ma è un processo a caldo e molto energivoro. Noi abbiamo sviluppato un processo di manipolazione del vetro a freddo (patent pending)”.
I due, partiti nove mesi fa in bootstrapping, ossia con le risorse che avevano, ora sono già in cinque, cercano investitori e business angel. Obiettivo: scalare. Sono arrivati secondi alla StartCup del Veneto, secondi tra 60 startup al Mit DesignX, programma di accelerazione del MIT di Boston. “Vuol dire che c’è ancora margine di miglioramento. E mi consolo pensando che anche i Maneskin sono arrivati secondi a XFactor”.
Rehub oggi riesce a processare 50 kg di scarti al mese. Da questi ricava 50 kg di prodotti. Zero scarto. L’obiettivo: processare 200 kg. “Abbiamo creato un’azienda per creare dell’utile, facendo però qualcosa di utile al Pianeta. Avrei potuto scegliere un posto fisso, timbrare il cartellino tutte le mattine, avere 13esima, 14esima. Ho detto: no. Ora mi sbatto di più, ma sono felice”. Poi ti racconta che non è un estremista. “Non sono come Greta Thunberg, prendo l’aereo e consumo. Ma credo sia giusto fare la propria parte. C’era un problema davanti a me. Nessuno lo vedeva. Siamo partiti da una questione locale, ma ignoravamo che il tema dei rifiuti non riciclabili in vetro fosse così grande. I dati mi hanno scioccato. Tutti abbiamo la falsa percezione che il vetro sia iper sostenibile e 100% riciclabile. Questo però è vero solo sulla carta… Si stima che in Europa il solo comparto delle costruzioni generi circa 5 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti in vetro. La maggior parte di questi finisce in discarica o viene trasformata in semilavorati per l’edilizia, in un processo di down-cycling che non rende giustizia a questo materiale”.
Intanto il gruppo ha in mano il progetto di una macchina in grado di processare 1 tonnellata di vetro al giorno. Una macchina facile da usare, facile da trasportare. “È un problema di tutti, la macchina potrebbe essere data in concessione là dove il prodotto viene creato”. Rehub è un gioco di parole che strizza l’occhio anche al mercato internazionale. “Vuole richiamare il termine inglese “rehab”, che identifica il processo di riabilitazione in clinica per persone con problemi di dipendenza a cui viene offerta una seconda possibilità. Nel nostro caso, il prefisso “Re” è un richiamo alle 4R dell’economia circolare (Reduce, Reuse, Recycle, Recover), mentre con il termine “hub” vogliamo indicare uno snodo di arrivi e partenze. Un luogo dove gli scarti entrano come rifiuti ed escono con una nuova vita”.