Vale la pena comprare un paio di scarpe da 50 euro che indosseremo soltanto poche volte o spenderne 250 per un paio che indosseremo in molte occasioni? Questa logica, accompagnata sulle reti sociali dall’hashtag #100wears (indossare 100 volte), vuole cambiare il modo in cui acquistiamo prendendo le distanze dall’iperconsumo e avvicinandoci alla riflessione, invitandoci a fare acquisti più ponderati e lenti. Tutto ciò a vantaggio sia delle nostre tasche sia della sostenibilità.
Un calcolo facile
Si chiama “cost per wear”, ossia il prezzo pagato per un vestito o un accessorio fratto il numero di volte che lo si è indossato. È un calcolo facile e, per quanto possa essere fatto in modo approssimativo, rende l’idea della reale entità delle nostre spese. La logica del #100wears sottintende che se useremo almeno 100 volte ciò che ci stiamo accingendo a comprare, allora stiamo facendo una spesa ponderata. Un parametro pensato per i capi di abbigliamento ma che può essere esteso a molti altri prodotti.
Fast fashion
Nel 2020 il rapporto “Global Fashion: Green is the new black” ha evidenziato quanto l’industria della moda sia energivora: per produrre una maglietta servono 2.700 litri d’acqua, per un paio di pantaloni possono servirne fino a 7mila. La fashion usa il 10% dell’acqua destinata alla produzione industriale e il tasso di riciclo degli abiti è molto basso, secondo il report circa dell’1%. La fast fashion, ossia l’esasperazione della produzione di abbigliamento a prezzi ragionevoli creando collezioni e trend che durano poco tempo (anche una sola settimana) si appoggia su una filiera altamente inquinante, a partire dalla necessità di materiali che ha spinto i paesi in via di sviluppo ad aumentare la produzione di cotone, gravando sulle risorse idriche locali fino ad arrivare all’incremento dell’uso di coloranti.
Le contromisure
Un sano rapporto con gli acquisti dipende da noi. Prima di cedere ai richiami delle sirene commerciali sarebbe opportuno fermarsi un attimo a riflettere. La logica del “cost per wear” ci viene in soccorso non soltanto con il rapporto tra il prezzo di un acquisto e l’uso che ne faremo, ma anche considerando che molto spesso i prodotti che acquistiamo sono di una qualità insufficiente a raggiungere la soglia del centesimo utilizzo. Ritorna in auge il vecchio adagio secondo il quale “chi più spende, meno spende”, anche se questo significa dovere rimandare nel tempo i nostri acquisti, perché ci costringono a dovere risparmiare per raggiungere la somma necessaria a effettuarli. Al di là della responsabilità dei singoli, l’industria in generale sta imboccando la via della sostenibilità, anche se in modo non omogeneo e qualche volta a geometrie variabili. Si stanno sperimentando nuovi materiali per prendere le distanze dai tessuti sintetici e, grazie anche a considerazioni evidenziate da alcuni studi scientifici, sta emergendo l’evidenza secondo la quale i tessuti naturali, certamente più costosi di quelli artificiali, hanno una più elevata resistenza all’usura, oltre a essere tollerati meglio dal nostro corpo.
Alla luce di queste considerazioni ha una logica che i vestiti di qualità abbiano un costo più alto e, in questo contesto, la logica del #100wear risulta ancora più ponderata ed efficace. Nonostante tutto ciò, l’uso di fibre tessili sintetiche continua a crescere, proprio in un momento storico in cui l’industria in generale dimostra una crescente sensibilità verso l’uso di fonti energetiche rinnovabili e si diffonde la cultura dell’energia pulita come leva utile alla competitività ed è un passo avanti rilevante per la salvaguardia del Pianeta. Un tragitto, quello verso la sostenibilità, che viene percorso a marce alterne. L’industria si dedica alla produzione di ciò che ha un mercato e se, nonostante il crescente impegno ambientale, ci sono segmenti in cui si procede con passo incerto, occorre che i consumatori si facciano delle domande.
L’Agenzia europea per l’ambiente diminuisce l’astrazione fornendo numeri: ogni anno in Europa produciamo 5,8 miliardi di tonnellate di prodotti tessili (11 chilogrammi circa a persona) e, di questi, i due terzi sono sintetici. La produzione di una tonnellata di prodotti tessili emette dalle 15 alle 35 tonnellate di CO2 e cedere agli acquisti che non reggono alla logica del #100wear non è segno di maturità ambientalista.