Quante cose può insegnarci l’Antartide. Dal continente dimenticato, quello  di ghiacci e resistenza, di vita estrema e basi di ricerca,  di esplorazioni e cambiamenti, può nascere una grande “consapevolezza” nell’affrontare il futuro. Ne è convinta Chiara Montanari, ingegnere e prima italiana ad aver guidato una spedizione in Antartide.

 

In cinque diverse spedizioni, dal 2003 al 2016, Montanari è stata protagonista nella gestione delle missioni polari nelle più importanti basi di ricerca internazionali. Lì ha imparato come dall’incertezza si può “risvegliare la vitalità”, ha osservato da vicino le sfide del riscaldamento globale e compreso come per uscire dalla crisi in cui stiamo vivendo sia necessario “un salto evolutivo”. Tutte conoscenze che il  14 maggio, in occasione della nuova edizione di “Scintille” realizzata dall’Incubatore I3P del Politecnico di Torino, Montanari racconterà davanti a una platea di studenti e appassionati. Temi che oggi affronta insieme alle aziende, nei TEDx e nelle altre occasioni di incontri in cui a guidarla è sempre “l’Antarctic Mindset, la capacità di prosperare nell’incertezza”, di cui oggi ci racconta i segreti.

 

Che cos’è l’Antarctic Mindset?

“Potremmo definirlo un approccio di formazione che porto alle aziende e altrove: è la capacità di prosperare nell’incertezza. C’è molta similitudine tra l’ambiente che stiamo vivendo, ricco di incertezze e di imprevisti, e l’Antartide dove ci occupiamo di missioni di gruppo e di imprese complesse con tante difficoltà. Condivido la mia esperienza in Antartide di tanti anni proprio  per comunicare come possiamo e dobbiamo essere abili a imparare a prosperare nell’incertezza. Non solo sopravvivere, ma anche raggiungere risultati”.

 

Quante spedizioni ha fatto finora e qual è stata la più complessa e la più carica di incertezze?

“Finora cinque spedizioni, l’ultima nel 2016. Fu un’esperienza molto forte perché ero a capo di una base belga che è stata sabotata e saccheggiata quando siamo arrivati, forse un primo e unico caso del genere. Fu un ulteriore imprevisto. Ma forse è stato ancor più complesso nella penultima missione. Allora ero a capo della base Concordia, quella che sta in cima al plateau antartico, a 4000 metri di altitudine, a -50 gradi d’estate e – 80 d’inverno, un luogo di condizioni proibitive. Quell’anno avevamo dato la nostra riserva di carburante a un grosso progetto di ricerca: avevamo fatto i calcoli che avremmo avuto ulteriori scorte e così l’abbiamo concessa. Ma ci fu un problema enorme lungo la costa, dove si staccò un gigantesco pezzo di banchisa che bloccò le navi che avrebbero dovuto rifornirci di carburante per tutta la stagione. Un imprevisto enorme: ci siamo completamente dovuti riorganizzare in corsa. Da questo ho imparato come l’incertezza ti fa inventare nuovi modi di organizzarti, per esempio trovando soluzioni energeticamente più convenienti. Devi fare in modo che la tua squadra diventi flessibile e creativa durante il cambiamenti. Questo vale anche nelle sfide della vita”.

 

Per esempio davanti alla sfida del riscaldamento globale?

“Certo. Dobbiamo prendere consapevolezza che il clima sta cambiando e trasformarci. Il tema vero però è che per riuscire ad affrontarlo non possiamo usare la stessa mentalità che ci ha portato sin qua, sino a questa crisi. In Antartide ho capito che non uscirai mai dall’emergenza se continui a concepirla nello stesso modo. La chiave è imparare a concepire la complessità e, navigandola, trovare soluzioni innovative”.

 

Con la crisi del clima come ha visto cambiare, negli anni, l’Antartide?

“C’è stato un cambiamento dal punto di vista percettivo e cambiamenti nel ghiaccio. Nel 2003, per raggiungere le basi si atterrava sul ghiaccio marino che si forma in inverno e di solito a inizio novembre, quando là è estate, potevamo atterrare tranquillamente, anche fino a metà dicembre. Nelle ultime missioni invece,  a causa delle temperature eccessive, era impensabile poterlo fare. Ma la cosa che mi ha impressionato di più è un’altra, vedere i dati della carota di Concordia, il ghiaccio che è stato perforato. Parliamo di 4000 metri di ghiaccio perforati che risalgono a 800mila anni fa: una sorta di analisi della storia della Terra e dell’atmosfera terrestre. Se osservi i grafici ottenuti dalla carota è evidente come in 800mila anni i parametri oscillano tutto sommato poco, ma negli ultimi 150 anni questi schizzano fuori range. Fa molta impressione: quei dati, quegli studi e quei grafici, confermano l’ipotesi di come l’essere umano con le sue emissioni abbia inciso sul clima”.

Qualcosa di innegabile anche per chi è scettico sulla crisi climatica innescata dall’uomo?

“Direi di sì. Purtroppo c’è tanto negazionismo. L’essere umano nega quando le cose non gli piacciono. Ma è un peccato: con la pandemia lo abbiamo visto, se tutti reagiamo in un certo modo si può ottenere un effetto forte. Ecco, dello stesso effetto avrebbe bisogno il clima. In questo, nell’affrontare il cambiamento tutti insieme, l’Antartide può essere una metafora ottima”.


In che senso?

“Oggi il tema del cambiamento, in generale,  è molto sentito ma viene vissuto con fatica. Ma l’Antartide, luogo dove è difficile vivere, ti insegna che se lo cogli, se cogli la natura del  cambiamento, se concepisci la complessità, allora ti rendi conto che il controllo è solo una illusione e rimuovi la fatica. Di conseguenza diventi più creativo nel trovare soluzioni”.

 

E lei che soluzione ha individuato per uscire dalle crisi che il Pianeta sta vivendo?

“Siamo di fronte a una grande crisi planetaria. L’unica soluzione che io vedo è un salto evolutivo. Per quello, anche con i giovani, parlo di consapevolezza: non ne usciamo se non usciamo da un empasse troppo materialistico, troppo legato al profitto. Noi come esseri umani ora siamo molto legati ad individualismo, realismo e profitto. Siamo tutti presi da questa trappola. Ma l’essere umano non è fatto solo di questo. Dalla crisi climatica, per esempio, usciremo solo fuggendo da questa logica di sfruttamento: la Terra non è da sfruttare, è un posto in cui relazionarci”.


Tornerà in Antartide?

“Vediamo se mi richiamerà. Mi piacerebbe una missione particolare, avventurosa. Per ora mi tengo gli insegnamenti che l’Antartide mi ha dato: è la metafora di un mondo piccolo e lì si riescono a vedere le dinamiche della complessità. Noi facciamo fatica a concepire la complessità: non ci entra in testa il fatto che in natura tutto è connesso e che noi siamo dentro a questa connessione. Per riuscire a comprenderlo dobbiamo uscire dai nostri schemi automatici e riscoprire di essere vivi: in questo, un luogo così duro come l’Antartide, può aiutarti e l’Antarctic Mindset diventa un modo per essere consapevoli degli errori percettivi che facciamo. Ecco perché è importante ascoltare quel che l’Antartide ha da dirci”.