Forse non ne abbiamo abbastanza coscienza, ma viviamo in certi posti non a caso. O meglio: la distribuzione della popolazione a livello mondiale si concentra in aree più favorevoli dal punto di vista climatico, al punto che è possibile identificare una sorta di “nicchia climatica umana”, come la chiamano i ricercatori. Non possiamo, detto in altre parole, vivere ovunque. E se le temperature continueranno a crescere sempre più persone si ritroveranno fuori casa, fuori dalla nostra nicchia climatica, col rischio di non riuscire a lavorare, muoversi e vivere a causa dell’aumento eccessivo delle temperature. Di quante persone stiamo parlando? Due miliardi nel caso in cui le temperature alla fine del secolo avranno raggiunto i 2,7°C rispetto ai livelli preindustriali.
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A fare i conti con i costi dei cambiamenti climatici sulla salute è uno studio appena pubblicato su Nature Sustainability, in quello che suona come l’ennesimo appello nella lotta ai cambiamenti climatici. Nel tentativo che, stime diverse dai costi economici e da quelli ambientali, possano servire a risvegliare politiche e coscienze, lasciano intendere gli autori. L’intento dichiarato infatti è quello di fare conti in termini di rischio ecologico per la specie umana, piuttosto che in termini di costi economici della crisi ambientale.
Il punto di partenza è stata l’analisi della distribuzione della popolazione in funzione della temperatura e storicamente, scrivono gli autori, tendiamo a vivere intorno a due picchi di temperatura media annuale: uno intorno ai 13°C, l’altro intorno ai 27°C. Con l’aumento delle temperature però qualcosa è destinato a cambiare: saranno sempre di più le persone che si troveranno a vivere fuori nicchia, e in zone con temperature più elevate, con tutti i pericoli collegati.
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L’aumento delle temperature infatti – già a partire dai 28°C – non solo significa uscire dalla propria zona di confort, ma si associa a una ridotta produttività sul lavoro, difficoltà cognitive e di apprendimento, parti prematuri e basso peso alla nascita e mortalità, ricordano gli autori, guidati da un team del Global Systems Institute della University of Exeter. A tutto questo – continuano – vanno poi aggiunti i rischi di conflitti e migrazioni, anche legati all’aumentato rischio di trasmissione di alcune malattie e le difficoltà che l’aumento delle temperature producono sull’agricoltura e gli allevamenti, senza considerare altri effetti dei cambiamenti climatici, come l’aumento del livello dei mari.
Di quante persone a rischio parliamo? Dipende da quanto aumenteranno entro la fine del secolo le temperature e dall’andamento delle popolazione stessa. Negli scenari peggiori, quelli in cui le temperature dovessero addirittura raggiungere e superare l’aumento di 4°C – con un ritorno al fossile – circa metà della popolazione si troverebbe fuori della propria nicchia. Ammettendo invece che le cose procedano come oggi, l’aumento delle temperature dovrebbe assestarsi intorno ai 2,7°C entro la fine del secolo, portando fuori casa – ovvero fuori la nicchia climatica umana – circa il 29% della popolazione, poco meno di tre miliardi di persone su una stima di 9,5 miliardi. Circa il 22% della popolazione si troverebbe invece esposta a temperature elevate: sarebbe molto meno, il 5%, nel caso in cui il target dell’aumento delle temperature raggiungesse quell’1,5°C degli accordi di Parigi, passando così da 2 miliardi a 400 milioni di persone esposte (oggi sono circa 60 milioni, per aumenti di nemmeno un grado già avvenuti).
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Se la popolazione dovesse crescere ancora di più di più saranno le persone a rischio, perché se è vero che le densità abitative possono cambiare, la crescita della popolazione tende a concentrarsi nei luoghi più caldi si legge nel paper. In quest’ottica, le aree più a rischio con aumenti di 2,7°C sarebbero India, Nigeria, Indonesia, le Filippine, il Pakistan, il Sudan, il Niger, la Thailandia, l’Arabia Saudita e il Burkina Faso.