Sono il polmone verde del pianeta: essenziali per noi, custodi della biodiversità globale. Ma le foreste non se la passano troppo bene. Ed è colpa, neanche a dirlo, del cambiamento climatico. Aleggia così lo spettro di un ritorno al passato ancestrale: a quando, cioè, 300 milioni di anni fa, la terra era decisamente più calda e non c’erano foreste. Neanche umani, però. C’è un ultimo, interessante studio che fa ora luce sui possibili scenari futuri legati al riscaldamento globale e che, soprattutto, sembra indicare una strada maestra per preservare il patrimonio rappresentato dalle foreste. Il titolo è singolare: “The soil-conscious forestry and the forbidden apple”, vale a dire “La selvicoltura attenta al suolo e la mela proibita”.
La metafora biblica – toccare il frutto avrebbe avuto conseguenze devastanti per l’umanità – rimarca l’inderogabile necessità di evitare qualsiasi impatto antropico sulle foreste ancora vergini, le cosiddette Intact Forest Landscapes. I tratti più estesi si trovano nei bacini del Rio delle Amazzoni e del Congo e nelle foreste boreali settentrionali, il 75% della loro estensione globale è dunque compreso tra Canada, Russia, Brasile, Perù e Repubblica Democratica del Congo. “Quel che chiediamo – spiega Augusto Zanella, tra gli autori della pubblicazione, ordinario di dendrologia ed ecologia del suolo all’Università degli Studi di Padova – è che le foreste vergini vengano lasciate evolvere indisturbate, dal momento che rappresentano senza dubbio uno ‘scrigno’ di biodiversità potenzialmente decisivo per il nostro futuro. Serve che la loro estensione resti consistente, condizione essenziale perché sopravvivano, continuano a essere indipendenti dal resto del Pianeta. Ad oggi, si tratta di foreste non sfruttate e influenzate solo in modo indiretto dall’uomo. E la loro funzione è fondamentale anche per il contrasto al cambiamento climatico. Ma domani, che accadrà?”.
Dubbi legittimi, proprio mentre il Wwf rinnova l’allarme per l’Amazzonia, sempre più vicina a un possibile collasso. “Quel che è certo – aggiunge provocatoriamente Zanella – è che non possiamo sperare di andare a vivere su un altro pianeta perché non siamo abbastanza evoluti per viaggiare nello spazio e anche fossimo in grado di migrare su Marte tra meno di 100 anni, staremmo su quel pianeta molto peggio che nei deserti più caldi o più freddi del nostro pianeta”. L’articolo suggerisce allora una serie di misure di gestione per le foreste di ambienti temperati e si propone di finanziare gli Stati che ancora possiedono foreste vergini, proprio “perché non vengano utilizzate e diventino beni preziosi per l’umanità”.Già, ma quali sono le gestioni suggerite per le foreste? La parola chiave è silvicoltura sistemica: “Il concetto fondamentale è che la foresta esiste in sé e non ha bisogno dell’uomo per svilupparsi. – spiegano i ricercatori – Ma il suo divenire è sempre difficile da prevedere, poiché la sua è una co-evoluzione con tutti i viventi del pianeta, uomo compreso.“Proponiamo così una selvicoltura che tenga conto del cambiamento di suolo con l’età degli alberi. Quando la foresta è giovane e in forte crescita, avviene un trasferimento di nutrimenti dal suolo agli alberi; quando invece è matura o stra-matura, la foresta restituisce i nutrimenti al suolo”, spiegano i ricercatori, citando i risultati di studi iniziati da Jean André dell’università di Savoia e da François Ponge e Niolas Bernier del Museo di Storia Naturale di Parigi, poi proseguiti in Italia grazie al progetto Dynamus, che l’Università di Padova porta avanti in collaborazione con i colleghi francesi e con il Centro di Ecologia Alpina di Trento, con il supporto della Provincia di Trento e dall’Unione Europea.Dunque, gli alberi maturi sono considerati cruciali per il ripristino delle risorse del suolo e lo sviluppo delle nuove generazioni di piante.
“Se asportiamo gli alberi quando sono ancora relativamente giovani, impediamo la restituzione di nutrimenti al suolo, con un conseguente impoverimento del sistema nel lungo periodo. – annota Zanella – Un albero forestale vive centinaia di anni: una quercia può arrivare anche a 500-700 anni, un pioppo invece a 100-200 anni; ci sono sequoie anche di 2000 anni. Invece, i cicli forestali raramente supero i 100-150 anni. La chiave di tutto è nel lavorare affinché questi cicli durino di più, sfruttando dunque l’apporto fondamentale degli alberi secolari o millenari. Del resto, non è quello che accade anche con la nostra specie, nella quale solo gli individui maturi e spesso anziani a favorire la crescita delle nuove generazioni?”.