Un nemico invisibile ha invaso ormai ogni angolo del pianeta, dall’Artico fino all’Himalaya. Sono le microplastiche, ovvero quelle particelle di materiale plastico con dimensioni comprese tra 5 mm e 0,1 µm. Ci sono poi le nanoplastiche, particelle ancora più piccole (tra 0,1 e 0,001 µm) e per questo ancora più sfuggenti. Oltre all’inquinamento ambientale, a destare preoccupazione sono i danni che le microplastiche possono arrecare alla salute umana: sono state trovate perfino nella placenta e nei testicoli. Un nuovo studio condotto dall’Università di Bologna, pubblicato sulla rivista scientifica Food Chemistry, ha indagato per la prima volta la presenza di microplastiche in diversi oli vegetali – olio extravergine di oliva, olio d’oliva, olio di semi di girasole e olio di semi vari – attualmente in commercio in Italia e in Spagna ed è arrivato a una sconfortante (o forse è meglio dire scontata) conclusione: le microplastiche non risparmiano neanche l’olio.


“L’interesse per l’olio è nato da una collaborazione con un gruppo di colleghi spagnoli. Stiamo parlando comunque di un prodotto alimentare, in particolare l’olio extravergine di oliva, molto diffuso in Italia e nella penisola iberica e considerato il simbolo della dieta mediterranea”, dice Maurizio Fiorini, professore associato del Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali – DICAM dell’Università di Bologna e co-autore dello studio.

 


I risultati dello studio

Per analizzare i campioni di olio i ricercatori si sono avvalsi di una strumentazione all’avanguardia. “In estrema sintesi e semplificando, abbiamo fatto passare l’olio attraverso un particolare filtro con dei pori del diametro di 5 µm in grado di trattenere le microplastiche. Abbiamo poi utilizzato una tecnica spettroscopica che ci ha permesso non solo di rilevare la quantità di microplastiche, ma anche di caratterizzare i polimeri con precisione”, spiega il professor Fiorini. “Sempre applicando questa metodologia, abbiamo in cantiere altri studi relativi alla presenza di microplastiche nel cioccolato e nel caffè”.

La maggior parte delle microplastiche osservate era costituita da frammenti (81,2%), con particelle di dimensione inferiore a 100 µm (77,5%), principalmente composti da polietilene (50,3%) e polipropilene (28,7%). In minore misura sono state trovate tracce di polietilene tereftalato (più noto con la sigla PET, ossia il materiale plastico con cui si realizzano la maggior parte delle bottiglie di acqua minerale, per intenderci), poliammide e politetrafluoroetilene (PTFE). I ricercatori hanno anche formulato delle ipotesi sull’origine della contaminazione, dal momento che le microplastiche sono state trovate nei campioni di olio contenuti sia in bottiglie di vetro sia in quelle di plastica. “Le microplastiche potrebbero essersi generate non tanto dal contatto con il contenitore, ma piuttosto durante le operazioni di spremitura nell’impianto di produzione: in questa fase l’olio può passare da parti meccaniche e venire a contatto con delle componenti in materiale plastico“, aggiunge Fiorini.


Quale limite per le microplastiche?

Dallo studio emerge che nell’analisi dei campioni di olio è stata trovata un’abbondanza media di microplastiche di 1140 x 350 MP/L. Sono livelli preoccupanti? A questa domanda è difficile al momento dare una risposta. L’impatto delle microplastiche sulla salute umana è infatti ancora oggetto di studi e ricerche. Lo scorso marzo la Commissione europea ha pubblicato la decisione delegata 2024/1441 che integra la direttiva 2020/2184, volta a stabilire una metodologia per misurare le microplastiche nelle acque destinate al consumo umano. In questo documento si ribadisce che “i dati attualmente disponibili offrono prove scientifiche conclusive limitate circa gli effetti negativi delle microplastiche sulla salute umana, e ciò a causa dei notevoli limiti delle informazioni disponibili sugli effetti biologici delle microplastiche e sull’esposizione alle stesse”. L’obiettivo principale di Bruxelles è quello di aiutare gli Stati membri a raccogliere informazioni in maniera standardizzata sulla presenza delle microplastiche nell’acqua, facilitando l’interpretazione e il confronto dei risultati a livello europeo.

“Lo sviluppo di metodologie analitiche robuste che individuino con precisione le microplastiche, differenziandole da altre particelle inorganiche, è un aspetto molto importante della ricerca, perché altrimenti si rischia di alterare i numeri e creare allarmismo”, sottolinea il professore dell’Università di Bologna. “Per quanto riguarda l’acqua, sono stati stabiliti dei valori limite precisi per l’arsenico, il piombo, il nichel eccetera. Per le microplastiche ancora no: medici e chimici devono approfondire insieme questo tema, che è fortemente sentito”. Ma perché alla fine dall’olio siamo passati all’acqua? Perché sicuramente un essere umano fa un consumo maggiore della seconda rispetto al primo e “bisognerà partire per forza dall’acqua quando si tratterà di stabilire dei limiti per le concentrazioni di microplastiche”, conclude Fiorini.