Le isole del mondo, soprattutto quelle del Pacifico, sono in estrema sofferenza per la crisi del clima: sono minacciate dai livelli del mare, dall’acidificazione degli oceani, dagli eventi meteo estremi e persino da terreni che diventano “salati” e incoltivabili. Per questo, attraverso un grido d’allarme globale, da anni tentano di avere risposte per il futuro. Una prima fondamentale risposta ai loro problemi potrebbe finalmente arrivare da quello che è definito come “il caso più importante” che sta esaminando la Corte internazionale di Giustizia su spinta della Corte suprema delle Nazioni Unite che porta il caso all’Aia dopo la pressione esercitata dalle isole. Da due settimane all’Aia si sta dibattendo di un caso che avrà come questione centrale la definizione su ciò che i Paesi di tutto il mondo, e in particolare quelli ricchi, sono tenuti a fare per combattere il cambiamento climatico. Ne parliamo con Arnold Loughman, procuratore generale di Vanuatu, lo Stato del Pacifico che, tramite la risoluzione 77/276 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha portato il caso alla Corte.

Dottor Loughman, ci racconta come questo caso è arrivato fino alla Corte Internazionale di Giustizia?

“Tutto è nato dagli studenti. In particolare dagli studenti della scuola di legge dell’Università del Pacifico Meridionale di Port Vila, a Vanuatu. Nel 2019 hanno condiviso l’idea di portare la questione climatica più in alto con Ralph Regenvanu, allora ministro degli Esteri e nostro attuale inviato per il clima. Il governo di Vanuatu ha deciso di condividere l’iniziativa con il Forum del Pacifico del Sud (un gruppo regionale che raggruppa diverse nazioni insulari, ndr) che l’ha supportata e portata all’attenzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”.

Durante la dichiarazione di lunedì scorso che ha aperto le audizioni, avete detto che la crisi climatica rappresenta un “pericolo esistenziale” per il vostro Paese. È questo che ha spinto Vanuatu a presentare il caso e a definirlo “il più importante nella storia dell’umanità”?

“Basta prendere una mappa per immaginare la situazione. Vanuatu è una piccola nazione insulare completamente circondata dall’Oceano Pacifico e alcune delle nostre isole sono interamente sul livello del mare, che sta aumentando a causa del cambiamento climatico. Eventi climatici estremi, come le inondazioni e i cicloni, che eravamo abituati a vedere nell’arco di un secolo o di alcuni decenni, si stanno ripetendo ogni anno. Ma non si tratta solo di questo: un mare più caldo provoca lo sbilanciamento dei coralli, un conseguente minor spazio dei pesci per respirare, e quindi un grosso problema per il settore della pesca, che è centrale nella nostra economia”.

Negli ultimi anni, soprattutto alle Conferenze sul clima, alcune azioni di rappresentanti degli Stati insulari – come il collegamento a Cop26 da Tuvalu di Simon Kofe con l’acqua sopra le ginocchia o il discorso commovente davanti alla sala stampa di Cop29 del samoano Toeolesulusulu Cedric Schuster – hanno avuto impatto sul negoziato. Le sembra che le vostre voci siano più ascoltate?

“Il più delle volte alle Cop non vengono prese decisioni. Noi non abbiamo dalla nostra parte il potere e la forza contrattuale per influenzare le negoziazioni. Ed è qui che entra in gioco il diritto internazionale, che è probabilmente l’unico mezzo attraverso cui le piccole isole in via di sviluppo possono farsi valere. In cui noi parliamo e gli altri ascoltano sul serio. In qualità di Procuratore Generale di Vanuatu, il mio dovere principale è quello di sostenere la Costituzione e lo Stato di diritto. I diritti sanciti dalla nostra Costituzione, pensata per garantire la protezione del nostro stile di vita per le generazioni presenti e future, vengono minati – e non dall’interno, ma dalle azioni e dalle omissioni di un piccolo numero di grandi Stati al di fuori dei nostri confini. Il mancato adempimento di questi obblighi da parte dei grandi Stati emettitori, identificati sulla base di prove scientifiche affidabili nelle osservazioni di Vanuatu, costituisce un atto illecito a livello internazionale. Questi Stati non possono sottrarsi dal giudizio della Corte Internazionale di Giustizia”.

In assenza di un cambio di rotta, le cause legali nei confronti di governi e aziende incapaci di agire di stanno moltiplicando – in Italia sono in corso quella nota come “Giudizio Universale” contro lo Stato e quella di Greenpeace e ReCommon contro Eni. Pensa che le strade legali possano avere successo dove altre hanno fallito?

“I rimedi giuridici nazionali non sono in grado di affrontare una crisi di tale portata ed entità. Nella prima settimana molti paesi hanno fatto riferimento al caso avanzato dai sei ragazzi portoghesi o alla vittoria delle anziane svizzere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Anche se la Corte di Giustizia non è vincolata da decisioni di questo tipo, speriamo che le tenga in considerazione. Per quanto riguarda i piccoli Stati insulari in via di sviluppo come Tuvalu o Kiribati, dove anche un solo metro di acqua in più potrebbe far scomparire intere isole, una questione che emerge è quella dell’autodeterminazione: se un’isola viene completamente inondata, cosa succede alla gente e al suo diritto di vivere nella propria terra? Vanuatu ha sempre avuto a cuore il tema dell’autodeterminazione. Siamo stati governati sia dalla Gran Bretagna che dalla Francia, abbiamo ottenuto l’indipendenza solo nel 1980. Non è stato facile, ma in qualche modo Vanuatu è riuscita a spezzare la catena del colonialismo”.

Che giudizio dà alle audizioni che ha sentito finora?

“Ci sono stati degli alti e dei bassi. Alcuni argomenti agli antipodi, con gli Stati Uniti e la Russia da una parte e le nazioni insulari dall’altra. Ovviamente non è sorprendente, ci aspettavamo posizioni controverse. Il mancato adempimento degli obblighi da parte di un piccolo numero di grandi Stati emettitori costituisce un atto illecito a livello internazionale, che dovrebbe comportare conseguenze giuridiche ai sensi del diritto internazionale della responsabilità degli Stati. Siamo qui per osservare e per aiutare qualora dei paesi avessero bisogno di supporto”.

L’Italia non è tra i 99 Paesi presenti alle audizioni. Cosa ne pensa?

“Abbiamo provato a raggiungere quanti più Paesi possibili. Avremmo voluto vederli tutti qui a L’Aia, anche perché è un caso che riguarda tutti. È una decisione che il governo italiano ha preso e ne prendiamo atto”.

Ha fatto un lungo viaggio per venire fin qui a seguire il caso. Come si sente?

“Sono qui per rappresentare la mia gente e il mio Paese, Vanuatu, che ha sposato quest’iniziativa e l’ha portata avanti. Come avvocato, finora è stata un’esperienza incredibile. Mi ha dato la possibilità di lavorare con persone da tutto il mondo: diplomatici, scienziati, giuristi, giovani, studenti, politici, rappresentati di altre comunità. Questo caso è un ottimo esempio di cooperazione internazionale e di cammino comune per raggiungere un beneficio per tutti, indipendentemente che tu venga da un piccolo Stato insulare o da una grande nazione sviluppata”.