Lo hanno già battezzato come il conservation paradox, il paradosso della conservazione. In grado, potenzialmente, di modificare la reputazione, per dirla in termini di marketing, che le specie invasive hanno tra gli scienziati e, soprattutto, nell’immaginario collettivo. Dal famigerato granchio blu alla rana toro americana, dall’ibis sacro alla nutria, passando per il muflone e il visone, che si sono diffusi nell’Europa centrale: sono tra le principali cause di perdita di biodiversità e dei servizi ecosistemici. Di più: sono considerate in parte responsabili, nel 60% dei casi, dell’estinzione delle specie che negli ultimi decenni hanno alzato bandiera bianca. I danni legati alla loro diffusione superano globalmente i 423 miliardi di dollari all’anno (12 miliardi nella sola Europa); in Italia quelli da granchio blu sono stati stimati in 100 milioni di euro.
Ma un nuovo studio delle università di Vienna e La Sapienza di Roma, pubblicato sulla rivista “Conservation Letters”, prova ora a raccontare la storia delle loro invasioni secondo una prospettiva in parte inedita: a volte, infatti, le specie aliene sono a loro volta minacciate nel loro areale di riferimento. E allora ad animare la ricerca è stata una domanda all’apparenza semplice: devono essere sempre “gestite” – con tecniche volte al ridimensionamento delle popolazioni o addirittura alla loro eradicazione – specie non autoctone, se realmente in pericolo nell’area dalla quale provengono? Di qui, la presa in esame di 230 differenti specie di mammiferi non autoctoni introdotti dall’uomo in nuove aree, in giro per il mondo, e stabilitesi in modo permanente. “Volevamo soprattutto scoprire quante di queste specie fossero minacciate anche nel loro areale nativo”, spiega Lisa Tedeschi dell’Università La Sapienza e dell’Università di Vienna, principale autrice dello studio. In 36 casi, le specie sono ad oggi risultate minacciate. Ecco il paradosso: specie diventate comuni nei nuovi areali, eppure fatalmente a rischio nei loro paesi d’origine.
Tra loro, il cinopiteco, o macaco crestato: la sua popolazione, nel suo areale naturale a Sulawesi, un’isola indonesiana tra il Borneo e le Molucche, è diminuita dell’85% dal 1978, mentre nelle altre isole dell’Indonesia le sue popolazioni sono assolutamente stabili. E se il coniglio selvatico è in pericolo in Europa, in Australia se la passa decisamente bene, con popolazioni assai più consistenti. L’esempio più emblematico, secondo i ricercatori, riguarda però l’Asia tropicale, minacciata dal bracconaggio e dalla massiccia deforestazione: alcune delle specie che proliferano altrove, lì potrebbero estinguersi. Tra loro, il banteng, o bovino della Sonda, e il sambar dalla criniera, una specie di cervo. O, ancora, il pademelon scuro, un marsupiale. In alcuni di questi casi, la classificazione Iucn migliorerebbe, in tutti questi casi, se si considerassero le popolazioni aliene, più o meno accidentalmente spostate dall’uomo lontano da ‘casa’. “Il punto – aggiunge Tedeschi – è che il numero delle specie a rischio estinzione è destinato a crescere nei prossimi anni, complici i cambiamenti climatici, l’inquinamento e, probabilmente, gli effetti dell’overtourism. Nel nostro studio abbiamo indagato tra i mammiferi, ma abbiamo motivo di credere che un approccio analogo aiuti a leggere anche tra specie aliene ed invasive negli uccelli, negli anfibi, nei rettili e nelle piante”.
“Valutare opportunità e rischi”
Quando si valuta il rischio di estinzione globale, le popolazioni aliene (quindi che non vivono nel loro areale nativo) delle specie non vengono attualmente prese in considerazione. “Eppure per il 22% delle specie analizzate, il rischio di estinzione globale si ridurrebbe se si includessero nella valutazione anche le popolazioni non autoctone”, spiega il naturalista Franz Essl dell’Università di Vienna, tra gli autori dello studio. Morale della favola? Le popolazioni aliene di specie minacciate potrebbero avere un’importanza sin qui sottovalutata, in particolare per la sopravvivenza delle specie in via di estinzione e soprattutto quando nell’areale dal quale provengono c’è una minaccia concreta alla loro sopravvivenza. C’è, però, la questione – tutt’altro che marginale – degli equilibri degli ecosistemi, che risentono naturalmente delle cosiddette bioinvasioni. “Va da sé che l’attenzione principale debba continuare a essere rivolta alla protezione delle specie nel loro areale nativo – spiega Essl – tuttavia, è probabile che in futuro ci saranno più specie minacciate di estinzione nel loro areale nativo e che avranno maggiori possibilità di sopravvivenza nei nuovi habitat. Ciò pone la conservazione della natura di fronte al difficile compito di soppesare opportunità e rischi”.
E se il granchio blu non avesse scelta?
Un compito dal quale non ci si può sottrarre. E lo studio lascia certamente in dote nuove riflessioni su un dibattito sempre vivo, soprattutto in un Paese – l’Italia – che continua a interrogarsi sui metodi di contenimento per il gambero rosso della Louisiana, Procambarus clarkii, nei fiumi del Nord Italia o, ancor di più, per il granchio blu, Callinectes sapidus, di cui si è molto scritto negli ultimi mesi. “Lo studio delle università di Vienna e La Sapienza è molto interessante. – spiega Francesco Tiralongo, ricercatore dell’università di Catania, all’attivo diversi progetti sulle specie aliene e invasive – Nonostante il granchio blu sia ormai una delle specie più invasive del Mediterraneo, per esempio, nella sua area nativa – vale a dire lungo le coste atlantiche americane – molte popolazioni sono state messe in ginocchio dall’overfishing. Questo paradosso evidenzia proprio come da un lato una cattiva gestione delle risorse naturali possa portare al collasso di una specie, mentre dall’altro, fuori dal proprio areale nativo, una specie può esplodere demograficamente grazie, ad esempio, all’assenza di predatori naturali e a condizioni ambientali favorevoli. È un chiaro esempio di come una gestione adeguata su base scientifica sia fondamentale per evitare questi squilibri”.