L’utilizzo di combustibili fossili è impattante per l’ambiente non solo per l’immissione di gas serra nell’atmosfera, legata al loro impiego ad esempio come carburanti, ma anche per l’inquinamento dei mari dovuto alla loro estrazione. I risultati di nuovo studio pubblicato su Science of The Total Environment, relativi a nove siti di estrazione presenti nel Mare del Nord, mostrano che la concentrazione di idrocarburi e di metalli pesanti nel raggio di 500 metri dalle piattaforme può essere, rispettivamente, fino al 10613% e fino al 453% più elevata rispetto a quella rilevata nelle acque più distanti.
Inoltre, gli autori dello studio hanno esaminato i dati relativi a oltre 4mila specie marine diverse, dai pesci agli organismi più piccoli, raccolti dal 1981 al 2012 in corrispondenza di questi nove siti sia prima che dopo l’inizio dell’attività di estrazione. Dalle analisi è emerso che la complessità delle catene alimentari tende a ridursi nel raggio di 500 metri dalla piattaforma, con la scomparsa dei predatori più grandi e la proliferazione invece degli organismi più piccoli che sono in grado di adattarsi alle nuove condizioni.
“Sappiamo da tempo che l’estrazione di idrocarburi può avere un impatto sulla biodiversità, ma questa è la prima volta che si riscontrano tendenze costanti in prossimità di diverse piattaforme”, racconta Zelin Chen, studente di dottorato presso la School of Life Sciences dell’Università di Essex (Regno Unito) e primo autore dello studio. “Ci sono stati chiari cambiamenti nella diversità e nella composizione delle comunità – prosegue -, con una diminuzione generale del numero e del tipo di specie vicino alle piattaforme dopo l’inizio della produzione di petrolio e gas”. Dalle analisi effettuate prima e dopo l’inizio dell’attività di estrazione è emerso infatti che la diversità delle specie presenti ha subito un calo del 28%.
“Siamo rimasti sorpresi da quanto sia semplice la rete alimentare vicino alla piattaforma, con i predatori più grandi [che sono risultati essere, ndr] più vulnerabili ai cambiamenti rispetto alle altre specie”, racconta ancora Chen. Si tratta di osservazioni rilevanti, spiegano gli autori dello studio, perché le reti alimentari più semplici, che includono un numero inferiore di specie, sono indicative di aree sottoposte a stress ambientale. Secondo Natalie Hicks e Gareth Thomas, co-autori del lavoro e, rispettivamente, ricercatrice presso l’Università di Essex e scienziato del Natural History Museum di Londra, particolarmente a rischio sono gli impianti di estrazione che si avvicinano alla fine del loro ciclo vitale: “Molti di questi siti saranno smantellati nel prossimo decennio e dobbiamo collaborare strettamente con l’industria e il governo per garantire che le pratiche di smantellamento siano guidate dalla scienza ed effettuate in sicurezza”, conclude Hicks: “L’oceano è una delle nostre più grandi risorse naturali, in particolare per mitigare i cambiamenti climatici, e dobbiamo lavorare tutti insieme per salvaguardare la sua salute per le generazioni future”.