Sono sempre stato preso in giro per il mio outfit non alla moda. Il fatto è che l’abbigliamento non è tra le mie voci di spesa più frequenti: indosso ancora maglioni, scarpe, pantaloni che hanno 15, 20, a volte persino 30 anni. E invece, improvvisamente, sono diventato cool. Il cambiamento climatico ha reso chiaro che il nostro modello di consumo non può più funzionare. E se questo vale in tutti i campi (anche in alcuni in cui sono molto meno virtuoso, per esempio l’alimentazione) vale anche – e molto – per il fashion.
La moda inquina. Ma quanto?
L’industria della moda inquina. Tanto. Quanto esattamente è però più difficile dirlo. A seconda delle fonti, è responsabile di una quota tra il 4% e il 15% delle emissioni globali di CO2 (tra l’8% e il 10%, cioè tra 4 e 5 milioni di tonnellate all’anno secondo un rapporto dell’Onu).
Inoltre, consuma (e inquina, soprattutto per l’uso di prodotti chimici e per i processi di tintura e concia) più del 20% dell’acqua per usi industriali, seconda solo all’agricoltura. Non basta: il 70% dei tessuti è composto da derivati del petrolio (soprattutto poliestere, per 80 milioni di tonnellate all’anno). Solo l’1% di questi viene riciclato, il resto finisce in discarica (con un tempo di degradazione di mille anni). E ancora, l’abbigliamento è la maggior fonte (35%) di microplastiche nei mari (e non solo, queste minuscole particelle di fibra di plastica sono state trovate anche nel nostro organismo), da cui la nota affermazione che nel 2050 ci sarà più plastica che pesci nei nostri mari.
“I dati sono molto disomogenei, anche perché il settore copre ambiti diversi”. – ammette Simone Cipriani, founder e direttore dell’Efi-Ethical fashion initiative delle Nazioni Unite e chair della UN alliance for sustainable fashion. – “La parte tessile è una realtà di un certo tipo, a livello di emissioni, materiali, biodiversità ecc.; la parte conciaria è una realtà ancora diversa. Inoltre, se parliamo di case di moda c’è un discorso, se si segue tutta la filiera un altro.
Una certezza è che il 70% delle emissioni a effetto serra del settore sono dovute alla supply chain, cioè alla produzione. Ma la sostenibilità non è solo un problema di emissioni, è un problema ben più complesso, di planet boundaries che sono stati superati, dalla biodiversità (basti pensare all’impatto delle microplastiche sulla fauna marina), al consumo del suolo e la deforestazione, dallo sfruttamento delle acque, ai biogeochemichal flows (cicli biogeochimici dei nutrienti), in particolare fosforo e azoto, che nel caso del sistema moda significano soprattutto pesticidi e fertilizzanti. E poi c’è tutta la parte sociale, l’aspetto della tutela del lavoro, di diritti umani che, se in Europa e in Italia sono ben rispettati, lo stesso non si può certo dire per tutta la catena di fornitura che si estende ben più lontano”.
“C’è poi una differenza fondamentale tra il settore moda inteso come marchi di lusso, al quale si riferiscono i miei dati e del quale mi occupo, e la produzione di massa è un’altra cosa. Se si parla di brand si parla di soggetti che su questi argomenti si stanno dando da fare. Che stanno cercando non solo di ridurre le emissioni a effetto serra ma anche di lavorare sulla biodiversità, sulla circolarità, sull’agenda sociale. Il fast fashion è tutto un altro mondo ancora. Come stanno davvero le cose lì non si sa”, continua.
Per la Commissione economica per l’Europa (dati del 2018) l’industria del fast fashion impiega globalmente 75 milioni di persone ed è soprattutto a questo settore se dall’inizio degli anni 2000 la produzione di vestiti è raddoppiata. Ogni consumatore acquista il 60% di vestiti in più rispetto a 20 anni fa, in gran parte in poliestere, la cui produzione è quasi triplicata, ma li tiene per la metà del tempo.
Secondo Harvard business review, la produzione di camicie e scarpe è più che raddoppiata negli ultimi 25 anni (mentre i prezzi si sono dimezzati), e 3 su quattro finiscono in discarica o agli inceneritori.
L’impatto ecologico della moda
Ma anche lasciando da parte il fast fashion, insostenibile per definizione (basti pensare che dalle 2/4 collezioni prodotte ogni anno dalle “maison”, le classiche “primavera/estate” e “autunno/inverno” – con il fast fashion si arriva a una nuova collezione alla settimana), che pure ha una quota rilevantissima del mercato (stimata a 2,5 trilioni di dollari), perfino le case più attente all’impatto ambientale devono far i conti con una crescita del mercato che, di fatto, vanifica i loro sforzi. “Non solo la moda non è sostenibile – ha scritto Lauren Indvik sul Financial Times, in un articolo di fine 2020, – ma lo sta diventando sempre meno.
Un rapporto pubblicato dalla Global Fashion Agenda di Copenaghen e dal Boston Consulting Group lo scorso anno (2019, ndr) ha rivelato che i progressi delle industrie dell’abbigliamento e delle calzature su tutto, dalla riduzione delle emissioni di carbonio alla garanzia di salari dignitosi per i lavoratori, sono stati del 30% più lenti nel 2019 rispetto all’anno precedente. Il settore sta inoltre crescendo così rapidamente che il suo impatto sul Pianeta sta addirittura peggiorando.
Secondo il rapporto, il volume di abbigliamento e calzature prodotto dovrebbe aumentare dell’81% a 102 milioni di tonnellate entro il 2030. La colpa non è solo del fast fashion. Anche la società madre di Gucci, Kering, che ha una delle politiche ambientali più avanzate e trasparenti nel settore del lusso, ha faticato a ridurre la propria impronta perché i suoi marchi stanno crescendo così rapidamente”.
Lo stesso termine “sostenibile” è ambiguo: è entrato a pieno titolo nel vocabolario di stilisti e produttori di abbigliamento, ma, come ha spiegato al Washington Post Katrina Caspelich, chief marketing officer di Remake, un’organizzazione globale senza scopo di lucro che sostiene una retribuzione equa e la giustizia climatica nel settore dell’abbigliamento, “Nel settore non esiste una definizione legale o concordata di sostenibilità. Di conseguenza i marchi definiscono la sostenibilità in base alle proprie interpretazioni per giustificare stipendi, crescita e profitti“. Mentre invece, per esempio, il termine “biologico” ha un preciso significato, regolamentato dalla legge.
Insomma, per dirla con Nature, “Un cambiamento è drammaticamente necessario. Ma questo richiederà all’industria della moda di lavorare più duramente per abbracciare quella che è nota come economia circolare“.
I tre pilastri della moda green
I principi dell’economia circolare applicati alla moda si traducono in essenzialmente due fattori. Il primo è puntare su prodotti che durino più a lungo o su prodotti che utilizzino come materia prima materiale riciclato. Il secondo è sviluppare ed espandere l’uso di tecnologie che facilitino processi produttivi sostenibili, come appunto il riciclo. “C’è un grande ruolo da giocare per la ricerca, sia in ambito accademico sia industriale, per raggiungere questi e altri obiettivi” si legge su Nature. Ma prima di fare tutto questo c’è un prerequisito essenziale: la tracciabilità, cioè la possibilità di sapere come, dove e quanto si inquina.
Misurare l’impatto
“C’è sicuramente un problema di sistemi di misurazione: solo per le emissioni a effetto serra ci sono vari criteri e punti di riferimento, dal science based target a vari enti internazionali, di diritto privato. Sono tutti ottimi sistemi ma quando sono applicati a questa industria spesso producono, in situazioni simili ma in aziende diverse, misurazioni completamente diverse” spiega Cipriani.
Economia e sostenibilità
Da Venezia l’appello per un’industria della moda sostenibile
di Fiammetta Cupellaro
“I soci della Camera della moda italiana sono tutti seriamente impegnati su questo, abbiamo un gruppo di lavoro sulla sostenibilità incentrato sul sistema di Esg due diligence (il sistema col quale si mettono in luce i rischi, in questo caso legati alla sostenibilità): un rischio che abbiamo messo in luce è proprio il fatto che dobbiamo trovare un criterio comune per capire dove siamo come sistema aggregato, ma anche per poter comparare i rapporti di sostenibilità tra le diverse aziende.
Così come i bilanci e i rapporti finanziari di aziende diverse sono comparabili uno con l’altro perché sono scritti usando regole comuni, sono basati sugli international accounting standards, lo stesso deve avvenire nella sostenibilità. E invece se si prendono 10 rapporti di sostenibilità di 10 aziende diverse l’impressione è quella di trovarsi davanti a saggi di scrittura creativa. Molto spesso non per cattiva volontà, ma perché mancando le linee guida. L’Unione europea si sta muovendo in questo senso con la direttiva sul Corporate sustainability reporting. La Camera della moda se ne sta occupando, anche in anticipo, ma la realtà è che siamo ancora a questo stadio, quello delle misurazioni” spiega Cipriani.
Per Namrata Sandhu, Ceo di Vaayu, una startup tedesca attiva proprio in questo campo, “semplicemente non si può tagliare ciò che non si può misurare, e il calcolo delle emissioni di carbonio è complesso e impreciso e richiede alle aziende di estrarre manualmente i dati, il che richiede tempo ed è inefficiente. Per anni, i rivenditori hanno affermato di voler fare di meglio, ma non avevano gli strumenti, né spesso le competenze, per navigare nella scienza del clima“.
Il ruolo delle startup
Il ruolo delle startup, la loro agilità e la struttura snella, in questo come in altri comparti affetti da gigantismo (energia in primis), è molto importante.
Sono innumerevoli le realtà in tutto il mondo che si occupano di trovare soluzioni, spesso creative, altrettanto spesso basate sulla tecnologia all’avanguardia, dall’AI al biotech, dall’ingegneria genetica alla chimica avanzata. Ecco qualche esempio, presentato il 9 febbraio scorso a Milano a un evento di Plug and Play intitolato The Next Wave of Sustainable Fashion, in cui alcune startup selezionate in tutto il mondo da Plug and Play – piattaforma globale di innovazione nata nella Silicon Valley che è tra i più grandi acceleratori di startup al mondo – si presentavano ai sustainability manager di grandi brand e distributori della moda Made in Italy.
Come per l’appunto Vaayu, un software automatizzato per misurare l’impronta del carbonio “che consente ai rivenditori di calcolare e ridurre le emissioni in tempo reale. Lo facciamo sfruttando l’intelligenza artificiale proprietaria e la tecnologia di apprendimento automatico per trarre informazioni dalla produzione, dalle vendite e dalla logistica per fornire informazioni granulari sull’intera catena di approvvigionamento. Forniamo inoltre ai marchi raccomandazioni sulla migliore linea d’azione e capacità di benchmarking” racconta Namrata Sandhu.
“I rivenditori che cercano di ridurre veramente le emissioni attraverso le loro catene di approvvigionamento e operazioni devono capire dove si trovano i loro punti caldi di carbonio e, cosa più importante, cosa possono fare a proposito. L’accesso a dati accurati e in tempo reale sulle emissioni consentirà ai rivenditori di prendere decisioni aziendali che producano riduzioni di carbonio credibili e spostino l’intero settore verso la decarbonizzazione”.
Materiali e processi
“HeiQ è nata per offrire techologie di innovazione di materiali che migliorassero le performance dei tessuti, ma ben presto ha aggiunto il focus sulla sostenibilità. Con AeoniQ abbiamo inventato una nuova fibra, a base di cellulosa, capace di sostituire le fibre di nylon e di poliestere, in assoluto il materiale più usato nell’industria, un mercato da 135 mila milioni di dollari“. A parlare è Carlo Centonze, Ceo della svizzera HeiQ. “La cellulosa, inoltre, non proviene da polpa di legno, bensì da tessuto da scarti tessili, rifiuti agricoli (dalle bucce di banana agli scarti della canna da zucchero ai fondi di caffè) e cellulosa di alta qualità prodotta tramite le biotecnologie, ed è completamente biodegradabile in 12 settimane, contro i secoli dei materiali a base di combustibili fossili”.
Come dicevamo, non è sempre facile stabilire che cosa sia sostenibile e che cosa no. Il cotone, per esempio, può sembrare quanto di più naturale ci sia. Eppure la sua impronta ambientale è tutt’altro che neutra, per il consumo di suolo, l’uso pesante di prodotti chimici come pesticidi e fertilizzanti e la quantità d’acqua che richiede la sua coltivazione. Di converso, la pelle non sembra di per sé un prodotto sostenibile (anche lasciando da parte l’aspetto etico): tuttavia l’alternativa (la pelle sintetica) lo è ancora meno, considerato che è quasi tutta basata materiali plastici. Arda, una startup inglese, ha iniziato un processo per trasformare in pelle sintetica i creali di scarto della produzione di birra. Brett Cotten, cofondatore della startup, spiega i vantaggi del loro prodotto: “Ogni 100 litri di birra vengono prodotti 20 kg di scarti altamente proteici e molto economici con i quali produciamo un materiale che può sostituire egregiamente la pelle. Per avere un metro quadro di pelle bovina servono 700 kg di foraggio, e noi ne bastano due. In pratica la nostra lavorazione richiede lo 0,1% di acqua e produce tra il 75 e il 99% meno CO2. E poi non ha scarti, dato che possiamo programmare la forma che ci serve, mentre mucche quadrate ancora non ne esistono!”.
Batteri tintori
Ai limiti della fantascienza il sistema inventato da Colorix per sostituire la chimica nel processo di tintura dei tessuti. In pratica sono in grado di riprodurre i colori presenti in natura negli organismi animali e vegetali, dal verde della foglia di un tiglio all’azzurro delle piume di un pappagallo, prendendone il DNA dalle banche, isolando i geni responsabili della pigmentazione e ingegnerizzandoli nei batteri. “Questi vengono poi inviati ai clienti, fatti fermentare per moltiplicarli e usati nelle normali autoclavi per la tintura. Un passaggio ad alta temperatura uccide poi i batteri in che vengono poi espulsi nelle acque spiega il Coo Chris Hunter.
Un procedimento stupefacente che è stato oggetto di un Life Cycle Assesment, una metodologia analitica e sistematica che valuta l’impronta ambientale di un prodotto o di un servizio, lungo il suo intero ciclo di vita. I risultati sono che, rispetto ai metodi tradizionali, basati sull’uso intensivo della chimica, le tinture biologiche di Colorix consumano il 77% in medo di acqua, l’80% in meno di prodotti chimici, il 71% in meno di gas naturale, meno della metà dell’energia. A un costo del tutto concorrenziale. In Italia il sistema è già in uso presso il Gruppo Albini.
Gli abiti in sharing
L’ultimo pilastro di una moda sostenibile è l’economia circolare, vale a dire fare in modo che i capi durino il più a lungo possibile e vengano sfruttati fino in fondo prima di arrivare alla discarica (e, se possibile non ci arrivino mai).
Di nuovo Cipriani: “Una volta parlato di biodiversità, consumo del suolo, emissioni ecc, tutto questo diventa impossibile se non c’è un discorso di circolarità: il modello lineare di sfruttamento delle risorse non ci consente di abbattere l’impatto ambientale. Addirittura il net zero (cioè non emettere più di quanto il pianeta può assorbire) potrebbe non bastare e sarà necessario diventare net positive, cioè assorbire qualcosa in più, prodotto anche dagli altri. Per questo la circolarità è ineludibile, ma anche in questo caso dobbiamo capire dove siamo: la circolarità e un sistema complesso, non è solo riciclo o riuso, è necessario capire fino in fondo qual è il circularity rate di un prodotto, che comprende l’energia usate per riciclarlo, l’acqua… I materiali impattano direttamente su biodiversità, sulle emissioni, ecc.”.
Di questo si occupano, tra le altre, l’italiana ThePaac e l’inglese Sojo. La prima funziona un po’ secondo il modello dello sharing, la condivisione. Come le auto, anche i vestiti, soprattutto quelli “importanti” passano la maggior parte del loro ciclo di vita “parcheggiati” negli armadi. Alessandro Franzese, il giovane cofondatore di The Paac, ha pensato di fornire degli abbonamenti ai clienti: pagando una quota mensile è possibile ricevere un certo numero di capi di marca, da usare quanto di vuole per un mese. Al termine gli abiti vengono riconsegnati e sostituiti con altri. Se invece vi siete innamorati di quella giacca e non volete renderla, è possibile acquistarla a prezzi di favore. Gli abiti restituiti vengono rimessi a posto e rientrano nel circuito dei prestiti fino a fine vita.
“In pratica realizziamo e gestiamo per i brand di moda piattaforme di fashion leasing. Una soluzione per combinare i vantaggi di nuovi trend quali il noleggio e l’acquisto di capi usati che stanno crescendo a ritmi sbalorditivi, garantendo l’autenticità dei prodotti, la qualità del ricondizionamento, una clientela estremamente fidelizzata e l’accesso al mercato del preloved [cioè i capi di seconda mano ndr] che nel 2030 si prevede diventerà più grande di quello del fast fashion. Abbiamo stimato che un servizio di fashion leasing porti un risparmio per l’ambiente di circa 250.000 litri d’acqua e 250 chili di emissioni di CO2 ogni anno per utente“.
Se ThePaac è l’Enjoy della moda, Sojo è il suo Deliveroo (così l’ha descritta Vogue). Si tratta di un’app per modifiche e riparazioni di abbigliamento per i singoli consumatori, che devono accorciare i pantaloni o sostituire una cerniera. Ma Sojo ha anche lanciato un prodotto B2B che consente ai marchi di offrire ai propri clienti un servizio di sartoria e riparazione senza soluzione di continuità, conveniente e scalabile.
I grandi marchi
Come si è visto, le alternative etiche, ecologiche e, punto di primaria importanza, economiche ai tradizionali processi di produzione, distribuzione e lifecycle di un capo di abbigliamento non mancano. Il passo fondamentale è però tutto da fare: le soluzioni proposte dalle startup devono essere prese in carico e implementate dai grandi player. È ovvio che la politica con le sue regole e i consumatori con i loro comportamenti possono e devono avere un ruolo attivo in questo processo, ma sono in definitiva i grandi produttori che devono darsi una mossa.
Secondo Franzese, “la politica dovrebbe guardare al bene della collettività e, con lungimiranza, legiferare per estendere la vita dei capi e ridurre la sovrapproduzione che rende l’industria dell’abbigliamento così impattante. Tuttavia, spesso la politica finisce per essere molto lenta nell’emanare provvedimenti che, inevitabilmente, innescano una serie di reazioni a catena. Sicuramente i consumatori, soprattutto le nuove generazioni, stanno dimostrando un sempre maggiore interesse verso prodotti più sostenibili. Ed è proprio questa maggior domanda che può accelerare la transizione. D’altra parte non tutti sono disponibili a pagare di più per tali prodotti. Non ci si può aspettare neppure che l’industria supplisca a tali problematiche sacrificando il ritorno economico o deliberando investimenti talvolta troppo onerosi. Nonostante ciò, sono proprio quei brand che riusciranno a combinare la sostenibilità ambientale e quella economica che si troveranno in una situazione di vantaggio competitivo e dunque verranno premiati dal mercato. Noi li aiutiamo a cogliere queste opportunità definendo con loro le priorità e le esigenze strategiche per poi implementare soluzioni su misura con la flessibilità di una startup”.
La modella sconvolta dall’impatto del fast fashion diventa attivista green
Secondo Centonze sono due le “parole magiche” per il coinvolgimento dei marchi. La prima è offtake agreements: i brand devono “comprare” adesso futuri volumi di materiali con minor impatto ambientale necessari per i loro prodotti. Le seconda è know your product: i brand devono specificare tutte le componenti del loro prodotto e non “fidarsi” dei loro suppliers, che metteranno sempre solo il meno caro, non il meno problematico”. Nel caso di Aeoniq, per esempio, lo scorso anno Hugo Boss è entrato nel capitale societario dell’azienda, con una quota del 2,5%.
Per limitarci agli ultimi annunci, Gucci ha appena annunciato un progetto per l’avvio del primo hub per il lusso circolare in Italia, con l’obiettivo di accelerare la trasformazione del modello produttivo del settore moda in Italia, ripensando l’intera catena del valore, a partire dalle materie prime e dal design dei prodotti fino all’ottimizzazione dei processi produttivi e logistici, secondo principi di economia circolare. Il progetto, dichiarano dalla società, migliorerà inoltre le performance di impatto ambientale del Gruppo Kering, di Gucci e della sua filiera e dei territori in cui esse operano. Renderà possibile consumare meno risorse, ridurre le emissioni di gas serra, creare occupazione di qualità e contribuire al benessere del territorio. Da una prima stima degli impatti ambientali effettuata sull’ecosistema Gucci pelletteria, sarà possibile arrivare a una riduzione sino al 60% delle emissioni di gas serra attualmente generata nella gestione degli scarti produttivi.
“Come si vede passi avanti ce ne sono, credo il sistema moda italiano in questo momento sia il più attivo; magari in modo confusionario ma si sta muovendo” dice Cipriani. “E questo è importantissimo, dato che il 75% delle produzioni della moda di lusso a livello mondiale stanno in Italia“.
Restano i consumatori, ma, è sempre Cipriani a parlare, “sono confusi, bombardati da troppi slogan”. A questi si indirizzano iniziative come quella di Chloè, che ha lanciato Chloè Vertical, un ID digitale unico per i scarpe, pelletterie e pret-à-porter che ha tre scopi principali: garantire l’autenticità, la tracciabilità e facilitare la cura e riparazione dei prodotti. Scansionando il codice, i clienti possono infatti conoscere l’intero processo di produzione, dal campo al prodotto finito, trovare le istruzioni per la cura e la riparazione e ottenere un certificato di autenticità, completo di numero univoco di proprietà. I clienti avranno inoltre accesso un collegamento per facilitare la futura rivendita di seconda mano del prodotto direttamente tramite Vestiaire Collective, un mercato online globale per la moda di lusso di seconda mano.
Riccardo Bellini, Presidente e Ceo di Chloé, è uno dei pionieri in questo campo, insieme a marchi come Patagonia e a stilisti come Stella McCartney. “Il lancio di Chloé Vertical dimostra i progressi che possono essere fatti verso lo sviluppo di un modello di business completamente trasparente e circolare quando c’è la collaborazione di tutto il settore. Seguendo gli impegni che abbiamo intrapreso dopo aver aderito alla Sustainable Markets Initiative (qui il .pdf), fondata nel 2020 da Re Carlo III quando era Principe di Galles, sono felice di offrire ai clienti Chloé in tutto il mondo l’opportunità di prendere decisioni informate sulla trasparenza, tracciabilità e circolarità dei nostri prodotti. Sono anche lieto di condividere le metodologie che abbiamo impiegato su questo progetto tramite la nostra iniziativa open source, che speriamo possa ispirare un’ampia adozione di questi principi in tutto il settore” ha dichiarato.
Le regole per un guardaroba green
Intanto, in attesa di capire cosa è veramente sostenibile e cosa non lo è, mentre cerco di districarmi tra greenwashing (cioè fare affermazioni infondate per indurre i consumatori a credere che i prodotti siano rispettosi dell’ambiente o abbiano un impatto ambientale inferiore rispetto a quello che effettivamente hanno) e clearwashing (fornire molte informazioni che però in ultima analisi sono del tutto inutili per stabilire se un prodotto è sostenibile o meno), continuerò a usare la regola delle 3R: compro il meno possibile (Reduce), indosso i miei maglioni ventennali (Reuse) e regalo gli abiti che non uso più (Recycle).
Che, insieme all’acquisto di abiti usati e al lavaggio il più raramente possibile e in acqua fredda dei capi sono quattro delle 5 regole consigliate dal Financial Times per ridurre l’impatto ambientale del proprio guardaroba. La quinta è questa: fai delle ricerche prima di acquistare nuovi abiti. Siti web come GoodOnYou.eco valutano i marchi in base all’impatto ambientale, alle condizioni di lavoro e al benessere degli animali. Leggi le politiche di sostenibilità dei marchi sui loro siti web e controlla le certificazioni come B Corp e Bluesign. Evita i tessuti sintetici derivati da combustibili fossili, come l’acrilico e il poliestere, che non possono essere riciclati su larga scala. Ma chi è arrivato fin qui lo aveva già capito.