OCEAN CAY (BAHAMAS) – Arrivati sull’isola che non c’era, due pellicani danno il benvenuto agli ospiti volteggiando attorno al nuovo faro. Guardando in basso dall’alto dei 68 metri della nave da crociera si scorgono linee di un azzurro impressionante che continua a cambiare tonalità, facendosi sempre più chiaro mentre bagna spiagge bianche. Sembra il paradiso, eppure prima era l’inferno.

Lì, nel cuore del blu infinito, a metà strada tra Miami e le Bahamas, l’isola di Ocean Cay oggi risplende e pullula di vita mentre il vento sferza le sue giovani palme e il sole illumina la baia dove arrivano le tartarughe e lottano i coralli, ma fino a quattro anni fa era tutta un’altra storia. Quest’isola, così come è, non esisteva: fino al 2015 era semplicemente una discarica, un deposito, una accozzaglia di rifiuti e metalli, ruspe e sabbia, poi abbandonato. Veniva usata, soprattutto dagli States, come cava, oppure luogo dove ammassare rottami, un posto in cui dimenticare le cose.

 

L'isola Ocean Cay prima del 2017  (foto: Msc Foundation)
L’isola Ocean Cay prima del 2017 (foto: Msc Foundation) 

Col tempo i detriti si erano attaccati alle colonie di coralli, i suoli impoveriti, la natura ingrigita. Nel 2017 però, grazie a una visione portata avanti da Msc Foundation, la fondazione della compagnia di navigazione Msc, a Ocean Cay è stata data una seconda opportunità. Lo scopo era duplice: da una parte commerciale, per offrire ai crocieristi un’esperienza unica, dall’altra un’opera di restituzione e impegno nei confronti della natura e di quel mare tanto solcato dagli scafi, nel tentativo di ricostruire una casa perduta per la biodiversità.

Da inferno a paradiso: la rinascita

Così sono iniziati i lavori: Msc ha ottenuto una concessione di 99 anni dal governo delle Bahamas e con un investimento di almeno 200 milioni di dollari ha riqualificato per tre anni l’intera isola trasformandala in una riserva marina di 64 miglia quadrate a un centinaio di chilometri da Miami. Sono state recuperate e smaltite 7500 tonnellate di rifiuti metallici, bonificati altri detriti, rimodellati i banchi di sabbia (quasi 500mila tonnellate), create le infrastrutture di base. Mesi e mesi di pulizie prima di tentare la sfida più ardua: ridare una chance anche agli ecosistemi dell’isola.

 

Policheti (foto: Msc Foundation)
Policheti (foto: Msc Foundation) 

Uno dei primi passi è stato piantare più di 75.000 tra palme, alberelli e arbusti in tutti gli anfratti, appartenenti a oltre 60 specie diverse. Poi, i lavori per ridare splendore alle otto spiagge inzuppate nel mare turchese e quelli per creare stagni e piccole lagune capaci di richiamare gli uccelli: dai pellicani ai gabbiani sono tornati, ma a sorpresa nel piccolo stagno al centro di Ocean Cay sono spuntate perfino le iguane.

“Devono essere giunte qui in qualche modo via nave, probabilmente dalla Florida, e ora le iguane in parte rappresentano un problema, dato che devastano parte delle piante. Ma è normale affrontare queste cose quando stai lottando per riportare la vita nell’ecosistema” spiega il dottor Owen R.O’Shea, biologo della Msc Foundation, l’uomo che sull’isola si occupa della riserva marina e soprattutto dei coralli.

 

Ocean Cay (foto: Msc Foundation)
Ocean Cay (foto: Msc Foundation) 

Già, perché affascinati dai colori caraibici e le acque mozzafiato di Ocean Cay, è facile dimenticare il progetto più complesso per l’isola che non c’era: recuperare la sua fonte di vita sottomarina, quei coralli che innescano le connessioni fra migliaia di specie e permettono la sopravvivenza del 25% di tutti gli organismi marini. Quando hanno iniziato la bonifica, spiega O’Shea mentre mostra alcuni scheletri di coralli, tra le alte temperature dell’acqua dovute alla crisi del clima e l’impatto delle azioni dell’uomo la barriera era in seria difficoltà. Quasi 400 colonie di corallo duro sono state rimosse dai detriti in mare e trasferite sui fondali più incontaminati per dar loro un’opportunità di resilienza.

Alla ricerca del super corallo

Lo stesso O’Shea, tramite una struttura di pali bianchi intrecciati, ha creato una nursery per tentare – dopo un lungo lavoro in laboratorio e in collaborazione con l’Università di Miami e la Nova Southeastern University di Fort Lauderdale – di far rinascere e prosperare il “super corallo”, una specie che sia in grado di adattarsi meglio e resistere ai cambiamenti dell’oceano.

Gorgonia (foto: Giacomo Talignani)
Gorgonia (foto: Giacomo Talignani) 

Per ora, mentre continuano gli studi, quello individuato come potenziale candidato “supereroe” è il corallo Elkohorn, testato tra 24 e 32 gradi, sottoposto a valutazioni sperimentali di sopravvivenza anche in caso di esposizione a lungo termine a temperature dell’acqua elevate. I primi risultati sono incoraggianti e, se Elkhoron dovesse superare anche i prossimi esperimenti, potrebbe diventare fulcro del restauro marino. Non solo: se funzionerà, il metodo di Ocean Cay basato sui super coralli potrebbe persino essere replicato altrove.

“Passare da sito industriale a riserva marina, riportare tutto allo stato naturale, non è stato affatto facile, questo vale sia per la parte emersa che per la barriera corallina. Nelle acque intorno all’isola ci sono tante varietà di coralli a rischio estinzione. Se pensiamo che a livello globale si stima che tra il  2030 e il 2050 tra il 70% e il 90% delle barriere coralline potrebbero estinguersi per sovrapesca, surriscaldamento e inquinamento, è doveroso iniziare a cercare delle soluzioni. La nostra personale risposta è il progetto del super corallo: ovvero individuare – attraverso test e tecniche sperimentali – un genotipo che sia resistente agli stress climatici, in modo da trovare le specie migliori da reintegrare nella scogliera per riprodursi. Qui fuori – dice Daniela Picco, executive director della Msc Foundation, indicando il mare – c’è un patrimonio pazzesco di informazioni sui coralli e vogliamo studiarle, ma anche condividerle, per poi replicare le conoscenze altrove”. Con un altro importante finanziamento, sul lato dell’isola dove attraccano le navi, sta infatti nascendo un centro di ricerca.

 

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“Il prossimo passo – spiega la direttrice – è  la creazione di un laboratorio e di un centro che avranno anche un acquario sperimentale con vasche interne ed esterne per i coralli. Sarà un luogo per lo studio e la divulgazione scientifica, anche per sensibilizzare i croceristi e aprire le porte a chi intende studiare i coralli. Crediamo serva una risposta collettiva a un problema globale, che non è solo delle Bahamas, ma di tutti”.

 

I primi segnali, dalle osservazioni del dottor O’Shea, sono incoraggianti. “Quando mi immergo – racconta – in alcuni punti ho la sensazione di essere il primo al mondo a vedere determinati coralli e spugne qui, ed è bellissimo come la vita si stia riprendendo. Alcune mattine ho avvistato squali martello, altre tartarughe o balene. C’è speranza”.

L’isola senza hotel

Il biologo britannico è, di fatto, uno dei 125 residenti che vivono sull’atollo per buona parte dell’anno. La particolarità di Ocean Cay è infatti anche questa: la presenza dell’uomo, e il suo possibile impatto, è limitata. Sulla striscia di sabbia che si estende per circa tre chilometri non ci sono hotel o resort, ma solo gli alloggi in legno per chi lavora nell’accoglienza dei croceristi. Le navi Msc arrivano da Miami e portano, a giorni alterni, i turisti sull’isola privata dove per alcune ore possono godere della bellezza delle spiagge e di piccoli bar o ristoranti dedicati e poi, al calar della sera, le persone rientrano a dormire sulla nave mentre l’isola si addormenta fra il canto degli uccelli e il rumore di onde e vento.

 

“Una magia per questo luogo, oggi paradiso terrestre, che un tempo era un sito dove veniva estratta la sabbia e appariva completamente diverso da come è ora: quando nel 2015 è stato abbandonato e lo abbiamo preso in gestione dal governo delle Bahamas, era fortemente impattato e sono stati necessari quattro anni di duro lavoro per ripulire i fondali e asportare i detriti ferrosi” aggiunge Leonardo Massa, Managing Director Italy di Msc.

“Oggi però siamo felici di vedere i frutti di questo sforzo: da poco sono tornate le tartarughe a depositare le uova, così come i coralli danno segnali di ripresa. Ci impegneremo sempre di più a raccontare cosa è stato fatto qui, affinché i turisti vengano, si godano  sole e bagni, ma poi ritornino a casa anche con un bagaglio importante di conoscenza di quella che è una esperienza naturalistica di ripristino della biodiversità” spiega.

Una sfida nella sfida

Per completare il bagaglio di cui parla Massa servono però studi e soprattutto tempo, prima di assistere al “ritorno al futuro” dell’isola, la complessa impresa da centrare. Se passeggiando per le stradine assolate è infatti facile restare rapiti dalla vista di centinaia gigantesche conchiglie, oppure dai colori caraibici degli alloggi in stile coloniale del personale, molto meno semplice è vedere cosa è accaduto sott’acqua. Lì, stima la Fondazione, negli anni il 50% del corallo al largo di Ocean Cay è stato distrutto e non lontano, lungo le coste della Florida, ormai la copertura corallina è intorno appena al 10%.

 

“Non possiamo stabilire quando e se i coralli qui torneranno davvero a prosperare, sono processi lunghi e delicati, spesso collegati anche agli impatti delle temperature dell’acqua o della crisi del clima” aggiunge il biologo O’Shea, ricordando che le Bahamas sono fra i Paesi più colpiti – per intensità dei fenomeni – dall’emergenza climatica. “Ma bisogna anche immaginarsi – chiosa l’esperto che ha lavorato a lungo anche sulla Grande Barriera Corallina in Australia – che una vittoria nel nostro impegno qui potrebbe aprire la strada anche al recupero dei coralli altrove. Il tutto, va visto come un grande laboratorio”.

Quando finisce di parlare è ormai sera e la grande nave sta per salpare: i turisti ritornano in cabina, l’isola si svuota e i pellicani si tuffano a caccia degli ultimi pesci, prima che il paradiso rinato – le cui acque ora sono finalmente protette – si addormenti tranquillo nel silenzio della notte.