È un circolo vizioso: l’anidride carbonica in atmosfera provoca l’aumento delle temperature; le temperature in aumento provocano lo scioglimento del ghiaccio e del permafrost; il permafrost, sciogliendosi, riversa altra anidride carbonica in atmosfera. Oggi conosciamo meglio l’entità di questo fenomeno grazie a uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Earth’s Future, i cui autori hanno combinato dati osservazionali con un modello biogeochimico per stimare la quantità di carbonio emessa dal permafrost in scioglimento, fino al 2100, in due scenari diversi.

Nello scenario più pessimistico, quello in cui continueremmo a sfruttare i combustibili fossili, sarebbero riversate in atmosfera circa 20 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Una quantità assolutamente non trascurabile, ma – va sottolineato – inferiore a quella direttamente dovuta alle attività umane, che nel solo 2023 hanno causato l’emissione di 11,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in atmosfera. Il permafrost è il suolo tipico delle regioni più fredde del mondo (ad esempio nord Europa, Siberia e America settentrionale): si tratta sostanzialmente di terreno ghiacciato composto di materiale organico che ha “intrappolato” per millenni anidride carbonica. Nelle regioni in cui le temperature scendono a meno di cinque gradi sotto lo zero, il permafrost è congelato in modo permanente. Durante l’Ultimo massimo glaciale, ossia il periodo durante il quale si ebbe la maggiore espansione dei ghiacci, circa 20mila anni fa, il permafrost copriva un’area molto più vasta di quella che copre attualmente, in particolare a partire dagli anni Ottanta, quando l’aumento delle temperature ha iniziato a diventare sempre più veloce e sensibile. Ed è proprio questa instabilità del permafrost a preoccupare oggi i climatologi.

Modellizzare il fenomeno, tuttavia, è molto complesso, perché molte sono le variabili in gioco. Gli autori dello studio appena pubblicato, un’équipe di scienziati della Zhengzhou University, hanno valutato profili dettagliati del carbonio intrappolato nel permafrost fino a sei metri di profondità, il doppio rispetto a quanto avevano fatto i lavori precedenti. In questo modo, hanno stimato che il permafrost dell’emisfero settentrionale contenesse 563 miliardi di tonnellate di carbonio tra il 2010 e il 2015, “seppellite” in un’area di quasi quindici milioni di chilometri quadrati. Gli scienziati, inoltre, hanno considerato due scenari diversi: il primo, decisamente ottimista, in cui riusciremo a contenere l’aumento delle temperature entro i due gradi centigradi; il secondo, peggiore ma purtroppo più realistico, in cui l’umanità continua a dipendere dallo sfruttamento dei combustibili fossili. Nel primo scenario, i ricercatori hanno stimato lo “scongelamento” di circa 119 miliardi di tonnellate di carbonio; nel secondo, la cifra sale a 252 miliardi di tonnellate. Fortunatamente, solo una piccola parte (tra il 4% e l’8%) finirà effettivamente in atmosfera, ossia 10 miliardi di tonnellate nello scenario più ottimista e il doppio in quello più pessimista. Tra l’altro, gli scienziati sottolineano che potrebbero verificarsi altre complicazioni (eventi di scioglimento improvvisi, dovuti per esempio a una diversa attività microbica) che aumenterebbero ancora di più la quantità di anidride carbonica immessa in atmosfera. Una ragione in più per insistere nelle azioni di contrasto al cambiamento climatico.