L’incontro con Vanessa Nakate è sempre la conferma che questa giovane donna, così timida nel tenderti la mano e rispondere alle domande di un’intervista, si trasforma in una leader capace di smuovere le coscienze quando parla di crisi climatica. Lo ammette lei stessa: “Ho sempre difficoltà ad affrontare una conversazione, specie con chi incontro per la prima volta. Ma trovo estremamente facile parlare di impatto climatico a una folla”. Non a caso c’è un evento che, meglio di altri, descrive la sua affermazione come leader del movimento mondiale per la lotta al cambio climatico e la sua fragilità.

È il 29 settembre 2021 e a Milano si sta tenendo la conferenza dei giovani sul clima “Youth4Climate” in preparazione alla Cop26 di Glasgow del novembre successivo. Davanti a centinaia di giovani, rappresentanti dell’Onu e dei governi, Nakate ha appena concluso un discorso appassionato dicendo: “Non dimenticate di ascoltare le persone e le aree più colpite”. Raccoglie i suoi fogli con lo sguardo che da ispirato si fa improvvisamente quasi imbarazzato di fronte al pubblico che si è alzato in piedi ad applaudirla e poi scoppia a piangere, abbracciata da Greta Thunberg.

Youth4Climate, il discorso di Vanessa Nakate prima delle lacrime: “Più aiuti a chi soffre per il clima”

Il discorso di Nakate è accolto con maggior calore di quello dell’attivista svedese, fino ad allora il volto più noto del movimento dei Fridays For Future, perché è il racconto di chi vive in zone del mondo dove davvero tutto sta cambiando velocemente a causa della crisi climatica.

In Aprite gli occhi. La mia lotta per dare voce alla crisi climatica (Feltrinelli, 2022), Nakate racconta in prima persona come si è votata alla lotta per l’ambiente. Le differenze nel percorso verso l’attivismo per una ragazza bianca del Nord del mondo come Greta Thunberg, e una giovane nera in un Paese africano sono paradigmatiche degli ostacoli a prima vista insormontabili che Nakate ha saputo affrontare pur di portare nel movimento le istanze del suo continente. Sia chiaro, nel contesto africano l’attivista nata nel 1996 a Kampala, in Uganda, è già una privilegiata rispetto alla maggioranza dei suoi coetanei. Suo padre è un commerciante, membro del Rotary Club di Bugolobi, uno dei sobborghi della capitale ugandese, e di recente è stato eletto sindaco di Nakawa, una delle cinque divisioni amministrative di Kampala. Vanessa ha una laurea in marketing ottenuta alla Makerere University, una delle università più antiche del Paese, e accesso a fonti di informazione internazionali grazie a internet.

Vanessa Nakate e Greta Thunberg durante un corteo di Fridays for Future a Milano, il 1° ottobre 2021 (foto: Matteo  Rossetti/Archivio Matteo Rossetti/Mondadori Portfolio via Getty Images)
Vanessa Nakate e Greta Thunberg durante un corteo di Fridays for Future a Milano, il 1° ottobre 2021 (foto: Matteo Rossetti/Archivio Matteo Rossetti/Mondadori Portfolio via Getty Images) 

È proprio sui social media che nasce il suo interesse per quanto sta accadendo al suo Paese con il cambio climatico: “Nel corso della primavera, dell’estate e dell’autunno 2018, i notiziari locali e i feed dei miei social media erano pieni di storie di massicce inondazioni che stavano devastando intere aree dell’Africa orientale, da Gibuti e Somalia a Burundi e Ruanda. Spezzava il cuore vedere quelle immagini di case spazzate via, leggere delle centinaia di persone che stavano morendo e apprendere dei tanti altri sfollati che avevano bisogno di riparo, cibo e medicine. – scrive Nakate – Migliaia di ettari di raccolti stavano andando distrutti. In Kenya, il paese che a est confina con l’Uganda, migliaia di capre, pecore e mucche erano rimaste uccise. Vedevo scene di bambini piccoli che si trascinavano nell’acqua diventata rossastra per via del terriccio che vi si riversava dai fianchi delle colline circostanti. Le Nazioni Unite definivano l’inondazione in Somalia, che aveva colpito mezzo milione di persone, come il peggio che la regione avesse mai visto”.

Ha sentito parlare di cambio climatico a scuola, riferisce ancora, ma come qualcosa che può avere a che fare con il futuro, mentre le immagini che ha sotto gli occhi la mettono in allarme su qualcosa che sta accadendo qui e ora. Comincia a cercare informazioni più precise, ha in famiglia, nello zio Charles “che legge parecchio”, una fonte diretta importante per impostare la sua battaglia. “I nostri contadini sono stati colpiti tutti dagli effetti del cambio climatico – le dice lo zio – eppure nessuno ne parla. I contadini hanno visto il meteo cambiare, e devono affrontarne le conseguenze. Dobbiamo fare qualcosa, per il bene dell’ambiente e dei giovani”.

È questa frase che la porta a cercare su internet se qualcuno sta già facendo qualcosa. Comincia a seguire gli scioperi di Greta Thunberg e gli account degli scienziati che da anni lanciano gli allarmi.

“Con le parole di zio Charles che mi echeggiavano in testa, cominciai a sentire anch’io la spinta a scioperare. Cominciai a sentire che dovevo diventare un’attivista per il clima”.

La sua determinazione e la sua passione sono incredibili. Una cosa, infatti, è sedersi davanti al Parlamento svedese durante l’orario scolastico, un’altra è stare in una via trafficata di Kampala con un cartello in mano, nella migliore delle ipotesi ignorata, nella peggiore additata come fonte di scandalo per la sua famiglia, o come pericolo per uno Stato in cui c’è poco spazio per i dissidenti. Nella sua biografia, il modo in cui Nakate descrive la scelta delle frasi da scrivere sui cartelli, che devono essere incisive ma non offensive, e la trattativa che ingaggia con le guardie presidenziali quando decide di protestare davanti al Parlamento hanno un che di naif, ma sono in realtà la prova delle limitazioni alla libertà di espressione che soprattutto una donna deve fronteggiare in altre culture.

L’attivista ugandese è sempre consapevole di muoversi in un contesto ben diverso da quello di cui legge sui social fare da sfondo alle iniziative sempre più popolari del movimento globale dei Fridays For Future. Se ancora avesse bisogno di prove che la sua lotta ha risvolti diversi da quella di Greta Thunberg anche al di fuori del suo Paese, quanto accade in Svizzera al World Economic Forum di Davos nel 2020, le fornisce una lezione esemplare. Nakate sta cominciando a ritagliarsi un ruolo nel movimento globale: ha fondato Youth for Future Africa, che poi diventa il Rise up movement, e nel 2019 è stata alla Cop25 di Madrid.

Ai primi di gennaio del 2020 Arctic Basecamp, un’organizzazione di scienziati che sta dando l’allarme sul rapido surriscaldamento dell’Artico, la invita a Davos. Partecipa alle marce e alla conferenza stampa di Fridays For Future, dove viene fotografata insieme ad altre attiviste europee: le svedesi Isabelle Axelsson e Greta Thunberg, la svizzera Loukina Tille la tedesca Luisa Neubauer. Sono tutte bianche tranne lei e nella foto che l’Ap diffonde sulle agenzie ci sono soltanto loro, l’attivista nera è stata tagliata. Nakate twitta direttamente all’agenzia fotografica: “Il fatto che cancelliate le nostre voci non cambierà nulla. Il fatto che cancelliate le nostre storie non cambierà nulla. Non avete cancellato soltanto una foto. Avete cancellato un continente”.

L’Ap si scusa e la forza con sui l’attivista identifica la sua immagine con quella dell’Africa dà forza al suo messaggio: Nakate diventa a tutti gli effetti la rappresentante delle comunità che meno hanno contribuito alle emissioni e al riscaldamento globale, ma che più ne pagano le conseguenze.

Alla Cop26 del novembre 2021 a Glasgow non è più soltanto una tra le tante nei movimenti, il suo è uno dei discorsi di punta, perché chiama in modo deciso il Nord del mondo ad assumersi le sue responsabilità e sottolinea il concetto di giustizia climatica. “Vediamo leader aziendali e investitori che volano alla Cop su jet privati. – denuncia – Li vediamo fare discorsi fantasiosi. Sentiamo parlare di nuovi impegni e promesse. Stiamo annegando nelle promesse. Le promesse non fermeranno la sofferenza delle persone. Solo un’azione immediata e drastica ci tirerà indietro dall’abisso. È difficile credere ai leader aziendali e finanziari quando non hanno fatto nulla di quanto promesso in precedenza. Semplicemente non ci crediamo. Ma sono qui ora per dire: dimostrateci che ci sbagliamo. In realtà sono qui per supplicarvi di dimostrare che ci sbagliamo. Che Dio ci aiuti tutti se non dimostrate che ci sbagliamo. Che Dio ci aiuti”.

Il magazine statunitense Time le dedica la copertina e nel marzo 2022 viene ricevuta da Papa Francesco. “Questo incontro con papa Francesco è stato vitale – ci racconta in quell’occasione – perché gli attivisti, i difensori dell’ambiente e gli scienziati devono parlare a tutti i leader mondiali dei pericoli che la gente e il Pianeta stanno affrontando, da anni ormai. Avere il Papa che riconosce la nostra campagna conferisce ancora più autorità morale alle nostre richieste. Ci battiamo per una transizione giusta per tutti, che non lasci indietro le comunità vulnerabili e meno privilegiate”. La fede è un elemento fondamentale per comprendere il modo in cui Nakate intende il suo impegno per la giustizia climatica. Sottolinea infatti: “Per me la lotta per proteggere l’ambiente è anche lotta per proteggere la creazione di Dio. Vedere il Papa che ascolta quel che stiamo facendo è stato davvero importante. La fede ha un ruolo fondamentale nel mio attivismo, sento una forte responsabilità, come cristiana, di oppormi alla distruzione dell’opera di Dio”.

Anche la speranza, su cui si sofferma quando presenta il suo libro in Italia, ha un fondamento nel suo cristianesimo eretto a modello di vita: “Senza speranza, non avremmo motivi per continuare a combattere. È la speranza che ci attribuisce la forza di scendere in piazza, riunirci in comunità, avviare progetti, avere la consapevolezza che possiamo costruire il futuro che vogliamo. E anche quando non ci sono più motivi di speranza, io continuo a sperare. È una questione di scelta credere o meno che un altro mondo sia possibile e debba esserlo”. Nonostante la fede, tuttavia, la fragilità di questa 27enne, che ha visto la sua vita mutare in modo del tutto imprevisto da 3 anni a questa parte, ha spesso ancora il sopravvento. Lo ammette spesso nelle interviste: la frustrazione di impegnarsi per cambiare le cose e vedere l’immobilismo dei governi, l’indifferenza di tanti la portano alla depressione, alla voglia di tornare ad essere la ragazza che sta “più volentieri chiusa in camera” che a parlare di fronte alle persone.

Invece, dallo scorso settembre, quando l’Unicef l’ha nominata Goodwill ambassador, i suoi viaggi e i suoi impegni sono aumentati ancora e non si sottrae agli appuntamenti come quello che la vedrà protagonista a Roma per l’evento di Green&Blue il 5 giugno a Roma. Nell’accettare la nomina dell’agenzia Onu ha detto di interpretare la scelta ricaduta su di lei per questo nuovo ruolo istituzionale “non come una testimonianza di qualcosa che ho fatto da sola, ma di qualcosa fatto come rappresentante di un grande movimento di giovani”.

“Sì, questa nomina apre le porte delle sale del potere, ma soprattutto amplia le opportunità che ho di viaggiare per incontrare i bambini e le famiglie più colpite dalla crisi climatica e per amplificare le loro storie in occasioni importanti”.


In uno dei suoi primi viaggi come Goodwill ambassador dell’Onu, a settembre in Kenya, ha incontrato un giovane che le ha chiesto perché i Paesi del Nord globale contribuiscono alla maggior parte delle emissioni, ma luoghi del Sud del mondo come la regione del lago Turkana soffrono di più. “Pensava che la colpa fosse nostra, in quanto africani – ha raccontato Nakate – È stato davvero difficile spiegargli perché coloro che subiscono l’impatto maggiore sono i meno responsabili, e questa è una delle orribili realtà della crisi climatica”.